Perché ci piace l’arte? Uno studio condotto da Enzo Grossi, docente di Qualità della vita e promozione della salute all’Università di Bologna, ha provato scientificamente a dare una risposta: guardare l’arte riduce sensibilmente il livello del cortisolo, l’ormone che viene prodotto quando siamo sotto stress e che a lungo andare diventa pericoloso per la salute. Questo per chi ama le documentazioni scientifiche. Ma anche senza scomodare i test di laboratorio, bastano i dati Istat (quelli pre-pandemia, ovviamente) per capire che l’arte era e tornerà ad essere una meta molto apprezzata: l’Italia vanta 4.908 tra musei, aree archeologiche, monumenti ed ecomusei aperti al pubblico. Ci sono 3.882 gallerie o raccolte di collezioni. nel 2019 oltre 128 milioni di persone hanno visitato il nostro patrimonio artistico e culturale. In Francia è ancora meglio: il Louvre ha circa 10 milioni di visitatori l’anno, il Musée d’Orsay ne ha, da solo, un po’ meno di 5 milioni. In tutta Europa, e nel mondo, le visite ai luoghi d’arte registrano un interesse permanente e crescente. Perché questo fiume di persone insegue l’arte?
Il saggista svizzero Alain De Botton ha fondato a Londra la “School of life”, un istituto che cerca di dare un senso di orientamento e saggezza per la vita con l’aiuto della cultura. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia “L’arte come terapia. The school of life”, afferma che l’arte migliora la vita. In pratica è una medicina. Ma come agisce? In primo luogo l’arte incrementa l’ottimismo: abbiamo bisogno del contatto con le cose belle, l’arte ci aiuta a vincere i problemi che provocano depressione e tristezza. Poi il vedere l’arte ci fa sentire meno soli. Alcuni capolavori dell’arte hanno la capacità di rendere visibili a tutti il dolore che c’è dentro di noi. Paradossalmente questo fatto ci consola, perché ci dà la consapevolezza che il dolore è parte della condizione umana.
Aggiungo che l’arte aiuta il nostro equilibrio: la vita ci rende meno armonici, squilibrati: a volte siamo troppo intellettuali oppure troppo emotivi, troppo calmi o troppo inquieti. L’arte riempie le nostre mancanze e controbilancia quello che siamo; ci dà qualcosa che ci manca, qualcosa di cui abbiamo bisogno, come gli integratori alimentari. Quindi ci rende più completi, più equilibrati e più sani. Altro fatto rilevante: l’arte ci aiuta, o meglio ci insegna ad apprezzare le cose, anche quelle banali, perché ci mostra la bellezza e la magia presente anche nelle cose ordinarie. Gli artisti evidenziano il valore delle cose, ci mostrano il fascino nascosto delle cose che guardiamo distrattamente. E ancora: l’arte è un catalizzatore delle spesso trascurate emozioni umane, che attraverso l’arte diventano attraenti e accessibili. L’arte è una forza che sostiene il lato migliore della natura umana, lo rafforza e lo aiuta in un mondo sempre più distratto e rumoroso.
Su richiesta di un gruppo di amici, che quando andiamo insieme a visitare mostre o musei mi dicono sempre: ma come spieghi bene, come racconti bene… mi accingo quindi (nei prossimi post) a fare questa passeggiata nell’arte, e in particolare nell’arte dell’ottocento, nell’arte moderna e in quella immediatamente successiva, anche se non trascurerò ciò che la precede. Il consiglio che do sempre a chi mi chiede come imparare qualcosa sull’arte è di provare a farla. Senza pretese, per divertimento, ma ponendosi qualche obiettivo e cercando di raggiungerlo.
C’è differenza tra lo spettatore e il praticante, perché il praticante comincia a “guardare” mentre lo spettatore magari si accontenta di vedere. Chi si pone nella posizione del fare, molto spesso guarda ciò che è già stato fatto con un occhio diverso, e magari apprezza di più i risultati e coglie dei particolari che al semplice spettatore sfuggono. Ma è anche vero che vedere è estremamente stimolante, e spesso fa venire la voglia di fare, pur nella consapevolezza che i capolavori dell’arte sono lontani anni luce, per tecnica o per intuizione, dalle possibilità di molti praticanti. Questo è comunque un suggerimento per tutti, prima di incamminarci in questa lunga galleria di immagini dove cercheremo di guardare molto e di parlare poco, il minimo indispensabile.
Per intenderci meglio, parleremo di tutto, a cominciare dall’antichità, ma quello di cui parleremo in particolare è l’arte che va dagli inizi dell’800, quella di grandi pittori come Turner, Friedrick e Delacroix, fino alcune delle correnti moderne, per poi sfumare, con un po’ più di distacco, verso le post-moderne, quelle che hanno popolato, con esperimenti molto diversi tra loro, la fine del ‘900.
La prima premessa che voglio fare è che io non sono uno storico dell’arte, sono un modesto praticante e non sono neanche una persona eccessivamente colta. Quindi chi vuole degli approfondimenti e delle spiegazioni dotte farà meglio a rivolgersi ai professionisti, ai molti bravissimi storici e critici di cui l’Italia ha molti esponenti.
Ma a mia discolpa posso portare un argomento un po’ semplicistico, ma efficace: chi può definire meglio una ragazza? il suo innamorato o il suo medico curante? Sicuramente il suo medico la conosce meglio, ne valuta i parametri vitali, conosce la sua fisiologia, e se la conosce da tanto tempo è in grado anche di tracciarne un significativo profilo psicologico e comportamentale. Ma il suo innamorato ci parlerà di lei con quell’entusiasmo e quella partecipazione un po’ acritica che però magari sa mettere in risalto quello sguardo intenso e pieno di desiderio che caratterizza gli innamorati e non i medici curanti, aggiungendo la considerazione che alcuni critici o storici dell’arte (non tutti, ovviamente) mi hanno spesso dato l’impressione di non amare molto l’arte in generale o addirittura di non amarla affatto, di guardarla con idee preconcette e di studiarla come si studia un bilancio o una statistica.
Il primo tema che vorrei affrontare è il motivo per cui questa arte tra Ottocento e Novecento piace e interessa così tanto al grande pubblico. Una prima risposta, forse la più semplice, è che questa arte è quella culturalmente più vicina a noi, e quindi la più accessibile. Non possiamo nascondere l’incommensurabile successo delle mostre che celebrano correnti come l’impressionismo, i macchiaioli e in generale grande la pittura figurativa moderna. Poi, per un pubblico un po’ più giovane, possiamo anche vedere l’interesse per le sperimentazioni post-figurative, il passaggio dell’arte significante all’arte significata, ovvero quell’atteggiamento in cui l’arte smette di essere il tramite per rappresentare qualcosa di esterno e comincia semplicemente a rappresentare se stessa. A collocarsi cioè nella realtà non più come strumento per rappresentare un oggetto una persona, un paesaggio, un albero, ma a porsi lei stessa come oggetto che rappresenta se stesso, con la stessa dignità di un albero o di una persona.
Ma forse il motivo per cui questa arte ci piace e ci interessa così tanto è che probabilmente si tratta dell’unica espressione umana veramente libera, dell’unica arte che, nel lungo corso della storia, non è stata eseguita su commissione, per celebrare la divinità, una potente casata nobiliare, un regno, un impero o un gallerista. Dobbiamo infatti ricordare che, salvo episodiche eccezioni, tutta l’arte antica è stata arte realizzata da maestri che venivano convocati da papi, prelati, principi o granduchi per glorificare la divinità, i santi oppure, più tardivamente, regnanti e governanti.
Anche nell’arte moderna questo meccanismo di mercificazione dell’arte si è riproposto. Da quando critici e galleristi sono diventati imprenditori, gli artisti sono tornati ad essere “fornitori”, spesso costretti ad eseguire lavori in ottemperanza a leggi di mercato più che a un intimo desiderio espressivo. Invece, quella che possiamo definire arte “libera” riguarda un periodo abbastanza ristretto, che include un po’ dell’Ottocento e un po’ del Novecento. Quell’epoca in cui l’urgenza dell’artista rispondeva a un bisogno interiore, e per soddisfare questo bisogno l’artista era perfino disposto ad una vita misera, da emarginato o da bohémien. Naturalmente anche nella contemporaneità esistono artisti così, ma - a meno che non siano molto fortunati - non sono destinati a diventare famosi e a lasciare un segno nella storia dell’arte.
Oggi assistiamo prevalentemente a vicende “artistiche” in cui un artista, una volta assunta una sua cifra identificativa di successo, è praticamente costretto a replicare quella certa immagine riconoscibile di sé, ad auto-referenziarsi continuamente in una specie di continua auto-citazione, come un prodotto di consumo che tende a mantenere la sua permanenza e invariabilità, quella per cui i suoi consumatori lo riconoscono e lo apprezzano. Se la Coca-Cola decidesse all’improvviso di cambiare gusto, colore o packaging, perderebbe probabilmente la fedeltà di consumo che l’ha resa grande.
E’ un meccanismo che non piace a molta critica “purista”, ma è purtroppo una legge che si autoalimenta. Se per esempio i Pink Floyd avessero deciso di continuare la strada di musica sperimentale che ha caratterizzato gli inizi della loro carriera, quella agognata da Syd Barret, probabilmente oggi non avremmo a disposizione quel fenomeno mondiale che è la storia dei Pink Floyd; avremmo soltanto una serie di pezzi, magari molto interessanti per poche persone, ma non ci sarebbe quella “universal picture”, quell’identità così chiara e così affermata che piace a milioni di persone e che ci fa riconoscere i Pink Floyd in ogni pezzo.
Poi c’è un altro argomento su cui è necessario fare una piccola premessa. Quando un quadro ci piace? Quando lo “capiamo”. Molte persone rifiutano grandi pezzi di arte moderna con un argomento inequivocabile: non la capisco, non mi dice niente. Di fronte a una considerazione del genere c’è ben poco da dire. La percezione visiva non ha bisogno di mediazioni culturali. Un’immagine entra nel nostro occhio, scorre come corrente elettrica lungo il nervo ottico e atterra nella corteccia visiva. Quando poi l’immagine viene decodificata dal cervello, le nostre esperienze, la vita che abbiamo vissuto, le nostre opinioni e i nostri gusti la ascrivono alle cose che ci piacciono o non ci piacciono. Ma qui bisogna aggiungere che una parte del segnale visivo finisce nella corteccia, ma un’altra bella fetta di quel segnale a un certo punto devia e raggiunge l’ipotalamo, quella famosa ghiandola che comanda epifisi e ipofisi e regola un bel po’ del nostro metabolismo. Quindi qualcosa succede in noi indipendentemente dal fatto che una cosa ci piaccia o non ci piaccia. Un quadro che non amiamo può ugualmente portare dentro di noi un messaggio di equilibrio e di armonia, e un quadro che magari ci cattura e ci interessa può lavorare nel nostro inconscio provocandoci una certa instabilità. Certamente anche questi effetti concorrono alla fine nella nostra valutazione, ma non sempre ne siamo consapevoli.
Aggiungo un altro fatto: che il nostro cervello è tendenzialmente un po’ pigro, tende ad apprezzare ciò che conosce e a rifiutare ciò che gli è estraneo. E’ un po’ la stessa cosa che succede a molta gente che odia o disprezza gli stranieri che arrivano nel nostro paese: non ne sappiamo niente, non conosciamo la loro lingua, hanno comportamenti e stili di vita molto diversi dal nostro e questo ci infastidisce. Però poi, può accadere che, per scelta o per necessità, si avvii un dialogo con qualcuna di queste persone. Cominciano a raccontarci chi sono, com’era la loro vita prima di arrivare qui, cosa hanno lasciato, come sono stati ricevuti, cosa mangiavano e cosa mangiano, quali sono le loro paure e le loro speranze. Allora di solito si crea una specie di inversione di tendenza: quella persona comincia a piacerci, o almeno smette di non piacerci. Le informazioni che abbiamo ricevuto fanno cambiare il nostro giudizio. Anche nell’arte funziona così. A volte conoscere il contesto in cui un’opera è stata creata, quali erano le istanze dell’artista, quale messaggio vuole mandarci, ci aiuta a trovare motivi di apprezzamento che la semplice percezione visiva non ci aveva fornito. Si potrà obiettare che il rapporto con un’opera deve essere immediato, senza bisogno di spiegazioni. Che non abbiamo bisogno di nessuna spiegazione: ci piace o non ci piace. E’ un nostro sacrosanto diritto, come è un nostro diritto chiudere la porta in faccia a un forestiero. E’ un nostro diritto rifiutare le informazioni necessarie per un cambiamento.
Queste informazioni, relativamente all’arte e a molte altre cose, si chiamano “cultura”. E’ un sacrosanto diritto quello di rifiutare la cultura, ci mancherebbe. Ai tempi che corrono, addirittura questo rifiuto è diventata un paradosso di democrazia. La cultura è per le élite, è una cosa da snob, da salotti inconcludenti. Però la conoscenza ci aiuta a interpretare la realtà, ci aiuta a vivere e a capire. Così succede che i più umili accettino l’idea di non saperne abbastanza e sentano il bisogno di saperne di più, e così si verifica quella famosa frase contenuta nel Vangelo che dice “gli ultimi saranno i primi”. Chi non si accontenta di quello che sa e ha fame di sapere, man mano scopre che quel gesto di umiltà gli squaderna davanti scenari inimmaginabili, la sua anima si amplia, i suoi pensieri non si ripresentano sempre uguali come un disco rotto, ma spaziano verso dimensioni inaspettate, aprono sentimenti nuovi, considerazioni che ci trasformano e ci rendono migliori.
Io sono cresciuto in una Italia in cui la cultura aveva ancora un valore per tutti. Quasi nessuno diceva “non voglio”, anche se molti dicevano “non posso permettermelo” e faceva di tutto per recuperare questa impossibilità.
Oggi invece la cultura è passata in secondo piano, molti preferiscono spendere i loro soldi e il loro tempo per l’estetica del corpo: capelli, unghie, abbigliamento, palestra, sport, centri estetici e beauty farm. Labbra finte, guance finte e seni finti. Il corpo ha vinto e la mente ha perso, e questo è avvenuto con la complicità di molti leader, che hanno capito benissimo che più si abbassa la capacità critica degli elettori e dei consumatori, più è facile orientarli, soggiogarli, terrorizzarli o fornire loro soluzioni apparentemente semplici, senza che ci sia una reale possibilità di verifica e di contraddittorio.
Hanno trovato terreno fertilissimo, sfruttando proprio quello che si diceva poc’anzi in relazione alla pigrizia del cervello. Se questa pigrizia viene blandita e avvalorata, le persone sono legittimate a non voler sapere niente di più di quello che già sanno, convinte che quel poco che sanno basti e avanzi per vivere al meglio. Ma se qualcuno riesce a recuperare quel po’di umiltà, trova spazio l’idea che noi diventiamo migliori non soltanto quando riusciamo a sollevare più pesi o a infilare una taglia in meno, ma anche quando riusciamo a decodificare qualcosa dell’enorme patrimonio di meraviglie che la cultura in generale, e l’arte nel nostro caso particolare, ci hanno regalato nel passato e continuano a regalarci nel presente.
Fatte queste poche premesse (in realtà ce ne sarebbero molte altre, ma la nostra promessa è di essere il più possibile leggeri e poco noiosi) siamo quasi pronti per cominciare la passeggiata, ma prima di iniziare non possiamo prescindere da due operazioni preliminari. La prima riguarda una domanda: da dove nasce l’esigenza umana di tracciare dei segni su un supporto? Dove comincia, e per quali motivi, l’esigenza della “rappresentazione”? A quali bisogni risponde? La seconda cosa che è necessario affermare è che è praticamente obbligatorio non trascurare qualche tappa di avvicinamento alle nostre passeggiate. In pratica, dobbiamo dire che è impossibile parlare di arte moderna e contemporanea senza fare almeno qualche minimo accenno a ciò che l’ha preceduta.
A voler ben guardare, infatti, tutta la storia dell’arte nella sua evoluzione appare come un lungo nastro, quasi senza discontinuità, in cui tutto ciò che accade è in un certo senso una riposta o una reazione critica rispetto a ciò che è successo prima. Come nella storia, anche nell’arte ogni evento è nello stesso tempo un effetto di ciò che è accaduto prima e una causa di ciò che accadrà dopo.
Dunque proviamo a rispondere alla prima domanda: quando nasce la rappresentazione, e perché? Certamente, se risaliamo alle origini, non possiamo parlare di arte nel senso che noi oggi attribuiamo a questo termine, e cioè una professione esercitata da una specifica categoria di lavoratori chiamati artisti, ma se diciamo che l’arte è una attività umana che conduce ad una espressione estetica, allora non possiamo non menzionare le prime testimonianze della preistoria, tra le quali primeggiano le celebri pitture rupestri come quelle per esempio delle grotte di Altamira e di Lascaux, le più famose. Parliamo di espressioni manuali realizzate circa 40.000 anni fa. Quali erano le motivazioni che spingevano i nostri antenati a realizzare quelle pitture rupestri che fortunatamente sono arrivate fino ad oggi? La risposta non è affatto semplice, anche se sembra ormai quasi certo che possiamo identificarle come un atto rituale, come qualcosa che abbia a che fare con la religiosità, la propiziazione, il rito e la dimensione del sacro che è “là in alto”, ma che è anche e soprattutto dentro di noi.
Questo non ci dice molto, perché se leggiamo gli splendidi libri di Leroi-Gourhan, un grande archeologo e antropologo, lui fa un esempio molto chiarificatore sulla difficoltà di interpretare i reperti preistorici. Immaginatevi di dover capire un’opera teatrale dovendola ricostruire dopo un terremoto e analizzando i reperti. Troveremo gli oggetti e i costumi di scena, ma troveremo anche la scopa dell’uomo delle pulizie e l’estintore messo lì dai pompieri per prevenire un eventuale incendio. Per fortuna a descrivere il perimetro di quelle attività c’è un bellissimo libro di Montinari, uno psichiatra e saggista che ipotizza una specie di “protorito” arcaico, una attività che potrebbe essere all’origine della religione, del teatro, della scuola, della competizione sportiva e di molto altro. La creazione di uno “spazio” in cui ciò che avviene è un po’ diverso dalla vita ordinaria. Una specie di attività collettiva che ha un effetto benefico e purificatore e formativo sui suoi partecipanti. Personalmente ritengo molto probabile che le prime pitture rupestri e le incisioni preistoriche siano state realizzate in un contesto del genere.
Se vogliamo analizzarle dal punto di vista formale, non possiamo non notare la straordinaria capacità realizzativa di quei nostri antenati, Una capacità che probabilmente evidenzia un legame profondo con il mondo là fuori, una spontaneità che crea una incredibile capacità tecnica e rappresentativa. Sono particolarmente interessanti perché vedremo che una certa parte dell’arte moderna ha cercato di riappropriarsi di quella immediatezza, di quella capacità di fusione tra il rappresentante e il rappresentato in modo da recuperare questa capacità primordiale di agire senza mediazioni culturali, in cui l’essere primitivo o primordiale è un punto di partenza ma anche un punto di arrivo.
Possiamo quindi dire che le pitture paleolitiche erano “sacre”? Forse, ma certo dobbiamo lasciare la domanda in sospeso, perché tutto ciò che riguarda la preistoria non a ancora avuto e forse non avrà mai delle risposte precise. Ma certamente possiamo dire che l’attività artistica, fin dalle sue origini coinvolge qualcosa che non è semplicemente materiale o fisico, ma ha sempre avuto una dimensione che oggi potremmo definire spirituale, animistica o sovramondana. Possiamo anche dire quasi certamente che l’aspirazione dei nostri antenati non era quella di una semplice raffigurazione rappresentativa, ma aveva sicuramente degli aspetti simbolici. Se infatti risaliamo alle primissime rappresentazioni dell’uomo notiamo che non erano bufali o animali, ma segni astratti: croci, pettini, file di punti, spirali eccetera. Questo ci dice chiaramente che l’uomo preistorico difficilmente aveva un intento meramente figurativo, ma già dalle sue prime manifestazioni esercitava già una qualche forma di astrazione, di significazione che dalla realtà vuole estrarre l’essenza.
Passiamo adesso al fatto che, per parlare di arte moderna e contemporanea, non possiamo tralasciare alcune premesse storiche. Il percorso dell'arte occidentale si afferma infatti come un continuo processo dialettico sul tema del rapporto tra realtà, idealità e rappresentazione. Occorrerà quindi fare almeno un accenno alle scaturigini di questa dialettica e guardare rapidamente alcuni passi salienti di questo percorso. Andando indietro nel tempo, fin dove è possibile ravvisare qualcosa che abbia a che fare con le arti contemporanee, diviene necessario, seppure in modo sommario e velocissimo, "regredire" fin dove è nata questa modalità tutta occidentale di rappresentare la realtà e oltre, rappresentazione che avviene in primo luogo religiosamente, ma poi anche intellettualmente, sentimentalmente, politicamente, eroicamente e in molte altre chiavi comunicative, fino alle sue estreme conseguenze, fino a mettere in discussione l’idea stessa del rappresentare.
La premessa-promessa è comunque quella di affrontare l’arte antica con un rapido volo, per sommi capi, per quel tanto che è indispensabile a ritrovarne i successivi riferimenti.
Molti sostengono, con un po' di approssimazione, che questa occidentalità “moderna” venga formandosi di pari passo con la diffusione del cristianesimo, destinato a soppiantare gran parte dei culti dell'antichità e ad incidere radicalmente sullo sviluppo della civiltà europea e americana. Questo si può dire da un punto di vista storico, nel senso che il cristianesimo fu una vera e propria rivoluzione, un cambio di paradigma (se vogliamo dirla con un termine che oggi va forte) rispetto al mondo antico, al mondo pagano delle religioni politeiste. Il cristianesimo operò un vero e proprio scotoma rispetto all’antichità, fu una specie di rifondazione del mondo. Ma noi ormai sappiamo che le nostre origini più profonde, le radici dell’arte occidentale, affondano nella grecità e nella storia di Roma, e vediamo chiaramente che queste radici nell’arte greca e romana, ma anche in altre civiltà antiche, saranno la linfa che darà poi vita a nuove forme di arte come il Rinascimento, il Neoclassico e molto altro. Gran parte della nostra storia dell’arte si basa su nuovi sguardi verso le tradizioni antiche, e in effetti, come vedremo, troviamo ricorrenti riferimenti alla classicità, alle pitture romane che a loro volta si rifacevano per gran parte all’arte ellenistica.
Nel lungo percorso che affronteremo con la necessaria superficialità e con la scarsità di apparati critici ed esplicativi, traverseremo momenti favolosi e poi arriveremo alla contemporaneità, con la netta sensazione di essere arrivati al capolinea. Infatti oggi si potrebbe tranquillamente affermare che l’arte è finita. In realtà non è finita, ma di certo non è più ritrovabile nelle mostre contemporanee e nelle gallerie d’arte, perché negli ultimi decenni l’opera d’arte è diventata qualcosa di completamente diverso da ciò che noi abbiamo raccontato fin qui. Probabilmente, anzi, certamente, l’arte continua a vivere al di fuori dei circuiti commerciali e negli studi di artisti ignoti, non famosi, che proseguono la loro ricerca artistica come percorso privato e personale. Ma di certo il suggestivo meccanismo di presa in giro degli acquirenti messo in piedi dal sistema-mercato dell’arte può essere considerato l’assassinio dell’arte stessa. Il meccanismo è un complesso trade di galleristi, mercanti, venditori, influencer, critici e giornalisti compiacenti, che “decidono” di far lievitare il valore di una puttanata scelta quasi a caso, con un gusto sarcastico che farebbe impallidire perfino quelli di Monty Python. Eppure anche questo paradosso ha le sue origini e la sua legittimità, nata dal sacrosanto diritto degli artisti di reagire e di opporsi a ciò che li ha preceduti, nel rispetto di quella famosa frase di Paul Gauguin quando dice che “l’arte è plagio o è rivoluzione”.
Vedremo che ad un certo punto, all’incirca dagli anni 60 del novecento in poi, l’arte molto spesso ha smesso di essere semplice “pittura” e si è sviluppata su direttrici molto diverse, come l’esposizione di oggetti, la performance corporea, gli interventi sul contesto, la intersezione tra varie forme espressive. In pratica, ha superato tutti i confini tradizionali e ha coinvolto campi che competono tradizionalmente ad altre discipline artistiche e ad altri ambiti, come l’architettura, la musica, la danza, la recitazione, i media di comunicazione. Molto spesso assistiamo oggi a fatti artistici che per essere compresi e apprezzati necessitano non soltanto di “cultura”, ma spesso di veri e proprie istruzioni per l’uso. Da quando il fatto artistico ha cominciato a consistere nell’appendere sacchetti di plastica o palline di carta, a portare nelle gallerie pezzi di legno, mucchi di stracci oppure lamiere reperite in giro, ci è difficile apprezzare le opere senza una informazione dettagliata che ci descriva l’apparato concettuale con cui l’artista ha deciso le sue azioni.
Visitando anni fa la Biennale di Venezia con un mio collega architetto, camminando in una zona limitrofa ai giardini, ad un certo punto ci siamo imbattuti in um mucchio di macerie. Ricordo che la nostra considerazione fu quella di ammettere che se non riesci più ad operare una distinzione tra un’opera d’arte e un cantiere temporaneamente sospeso, indubbiamente qualcosa deve essersi rotto nel meccanismo che conduce una persona ad esporre un’opera e in coloro che la avallano.
Devo dire onestamente che il mio interesse, forse limitato dalla mia poca cultura, cala molto quando l’opera è incardinata su fredde modalità puramente costruttive che privilegiavano una fruizione di stampo razionalistico, priva di concessioni all'empatia o al godimento estetico. Nonostante ciò ci occuperemo anche di queste nuove forme di arte, ma con un maggiore distacco, non per un giudizio critico, ma per una premessa tecnica: qui noi dirigiamo il nostro interesse alla pittura, alla grafica, al disegno e alla stesura del colore, nell’intento di esplorare le possibilità dell’arte visiva in senso bidimensionale e nella convinzione che la grande sfida sia quella di superare tutti i limiti possibili rimanendo però fedeli al supporto piatto che ospita l’opera. Vorrei limitare il nostro sguardo a questa sfida e all’esperienza artistica quando chiama in causa le capacità di un artista sulla base di quanto riesce a fare su una tela, su una tavola o su una parete. Anche perché - tecnicamente - tutto ciò che aggetta diventa subito scultura, e la scultura esula da questa nostra analisi.
Inoltre, questo tipo di esperienze, ha provocato anche esiti davvero singolari. A un collezionista può accadere di comprare un’opera per diverse decine di migliaia di dollari e di ritrovarsi dopo qualche anno con una patacca che vale qualche centesimo. La trasformazione dall’arte all’arte-mercato assomiglia molto alla trasformazione dell’economia in finanza che abbiamo visto nella fine del secolo precedente. Il concetto (o non concetto) è che il valore intrinseco delle cose non esiste più, e a determinarne il prezzo (che non corrisponde assolutamente al valore) sia una serie di variabili mediatiche e sociali.
Questa specie di farsa tragica ha radici già nel dopoguerra, quando i galleristi e gli “artivendoli” hanno condannato gli artisti a ripetere continuamente i loro moduli narrativi, quelli che li hanno resi celebri, come se fossero prodotti di consumo. Il famoso taglio di Fontana, probabilmente una grande intuizione ed un’opera di interesse storico, non ha forse diminuito il suo prezzo, ma ha ovviamente perso valore quando Fontana ha cominciato a produrre tagli a ripetizione per assecondare una richiesta di mercato. Spero veramente che la storia dell’arte sappia, negli anni a venire, fare piazza pulita di tutta questa immondizia e ristabilire un rapporto reale tra artista, venditore e collezionista o apparato museale. Dopo questa fase di arte come prodotto di consumo, è arrivata l’arte da social media, ovvero basata sul prodotto eclatante, scandalistico, rilevante in quanto capace di suscitare interesse mediatico. Naturalmente anche questa “capacità” spesso non è intrinseca all’opera, ma come ho detto è fabbricata a tavolino dai mercanti, dai critici e dai galleristi.
Io non so se Banksy abbia voluto mettere in risalto queste incongruenze quando ha creato il quadro della bambina con il palloncino che si è autodistrutta, perché di fatto anche l’evento autodistruttivo non ha fatto altro che aumentare questo meccanismo di lievitazione del prezzo a fronte non solo della scarsa rilevanza, ma addirittura della mancanza stessa dell’opera. Si dice di Banksy che l’opera vada vista, per sua stessa ammissione, come una citazione di Picasso quando dice che ogni atto di creazione è, prima di tutto, un atto di distruzione. Ma se l'intento era quello di rivelare e mettere in discussione il sistema economico che gira intorno all'arte, bisogna dire che l’obiettivo non è stato raggiunto. Infatti l'opera di Banksy distrutta dal trita-documenti contenuto in essa vale oggi il doppio del prezzo a cui è stata venduta. Risulta difficile credere che Banksy non abbia pensato a questa paradossale conseguenza.
Un altro fatto che denota la situazione tragica provocata dai mercanti (che nel frattempo arricchiscono e se la ridono) è una banana attaccata al muro con il nastro adesivo, la nuova opera di Cattelan, venduta a 120mila dollari. Naturalmente non c’è da parte mia nessuna critica a Cattelan, che tra l’altro è persona ricca di idee e propositore di intelligenti provocazioni. Inoltre è innegabile che se esistono idioti disposti a pagare 100mila dollari, che so, un pacchetto di noccioline, è ovviamente legittimo che esista qualcuno che vende pacchetti di noccioline a 100mila dollari. Naturalmente una banana marcisce, quindi l’acquirente deve periodicamente sostituire la banana (e probabilmente anche il nastro adesivo). L’idea è simpatica, potrebbe essere un bel soggetto per un film di Neri Parenti, ma sembra aver poco a che fare con l’arte, anche se le concettualizzazioni che possiamo appioppare a questo evento sono moltissime, a cominciare dal fatto che costringe il suo acquirente a perpetrare l’azione cosiddetta “artistica” per poter continuare a godere dell’opera. Ma c’è ancora di più: l’artista David Datuna si è avvicinato all’opera, l’ha staccata dal muro e ha iniziato a mangiarla davanti alle telecamere per poi pubblicare il filmato su Instagram, definendo il tutto una performance artistica. Performance però di moderato successo, che ha ottenuto meno di 300.000 visualizzazioni su YouTube.
I precedenti non mancano, a cominciare dalla “Merda d’artista” di Piero Manzoni del 1961 al “Cubo inesistente” di De Dominicis, opera-non-opera del 1969, a cui si aggiunge, nel 1972, il ragazzo affetto da sindrome di Down esposto alla Biennale di Venezia, sempre da De Dominicis, ai cavalli portati in mostra da Kounellis nel 1969. Tutti episodi che hanno avuto il merito di porre la immortale domanda (senza risposta) su che cosa sia arte e cosa non lo sia. Eppure, come vedremo, Duchamp aveva chiarito per bene che la sua “fontana” del 1917 non era arte, ma anti-arte. Peccato che questa confusione tra arte e anti-arte abbia trasformato una provocazione in un valore assoluto. L’apparato concettuale è servito al dibattito, ha espresso il rifiuto di molti artisti o presunti artisti verso un’idea di arte che doveva gratificare. D’altronde anche Picasso, quando ha dipinto “Les demoiselles d’Avignon”, non aveva certo l’obiettivo di compiacere lo spettatore. Ma Picasso aveva stile e aveva chiari i confini entro cui attuare la sua rivolta. Sulle provocazioni successive attendiamo qualche bambino che trovi ancora il coraggio di dire che il Re è nudo. Per chi si occupa d’arte, e per noi ignari amatori, che abbiamo dato una rapida scorsa a mille anni di storia dell’arte, credo che questa affliggente realtà dovrebbe trovare spazio al massimo nei giornali trash-scandalistici che oggi non esistono più come per esempio “Cronaca Vera” dove si vedevano titoli del tipo “Masturba l’amante nel palazzo di fronte usando una canna di bambù” oppure “Suora sorpresa a far l’amore con un cane”. Chissà che quei baldi redattori non si siano convertiti in artisti concettuali… Ma io sono comunque ottimista, occorre attendere che passi quest’epoca, forse la più idiota nella storia del mondo, e attendere una ripartenza dominata dal senso e dall’onestà intellettuale, perché l’arte non muore.
(giugno 2020)
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