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domenica 17 marzo 2013

Le origini dell'anti-arte


Vorrei pubblicare per intero, se fosse possibile, l'interessantissimo articolo di Mario Perniola Impara l’arte, uscito oggi su Repubblica.
Perniola descrive la frattura sostanziale tra l'arte, anche quella contemporanea (che viene collocata dall'Impressionismo all'informale, 1860-1960), e ciò che è seguito, come anti-arte, fenomeno dilagante dagli anni sessanta ma che ha i suoi prodromi nel Dadaismo e soprattutto in Duchamp.
Anti-arte sarebbe "tutto quanto esula dalla pittura di cavalletto", quindi performance, installazione, street e body art, video ecc...
Dice Perniola: "L'anti-arte è una produzione in cui l'aspetto autodenigratorio e autodistruttivo prevale sull'opera"
Per spiegare l'anti-arte, ovvero una specie di allontanamento dall'immagine, o avversione per l'immagine, secondo l'autore bisognerebbe ricorrere a fattori extra-artistici quali la religione, la filosofia sociale e mediatica e altre discipline della cultura occidentale.
Non saremmo nuovi a quest'esperienza, che trarrebbe le sue origini dalla pregiudiziale aniconica di Platone (per cui l'arte essendo "copia di una copia" sarebbe due gradi lontana dalla verità), ma anche poi anche dalla diffidenza presente nella Bibbia  nei confronti delle rappresentazioni visive, che esporrebbero al rischio di idolatria.
A dare il colpo di grazia all'arte, sempre secondo Perniola, c'è l'anti-accademismo promosso da Rousseau che glorificava l'agire spontaneo e l'immediatezza dell'uomo naturale. E poi due eventi più recenti e definitivi: la Rivoluzione maoista in Cina, con la sistematica distruzione  di gran parte del patrimonio artistico della Cina imperiale e infine il movimento studentesco del '68 "che facendo proprio il principio secondo cui l'arte può essere fatta da tutti, indipendentemente dallo studio (...) e dalle capacità, favorì enormemente l'affermarsi di profondo risentimento nei confronti di ogni forma di eccellenza".

Le tesi sono molto interessanti. E contengono prospettive nelle quali mi riconosco. Rispetto alle deduzioni finali, mi è venuto però da obiettare che anche la rivoluzione culturale di Mao ha prodotto immagini, è che c'è stata un'estetica di regime, retorica e brutta quanto si vuole, ma penso che Mao volesse semplicemente negare il vecchio col nuovo come hanno fatto molti altri regimi totalitari. Riguardo alla rivoluzione studentesca, mi sembra che invece abbia abbondato di immagini, e su quell'onda possa essere collocata gran parte della fotografia, della pop-art, della grafica, della customizzazione degli standard, e le loro estensioni verso la psichedelia e le visioni extracorporee. Quanto al fatto che quella generazione abbia avuto risentimento verso ogni forma di eccellenza, rispondo solo: il tibutoricevuto da Elvis Presley, Jimi Hendrix, Eric Clapton, Led Zeppelin o Pink Floyd non mi sembra che si possa definire esattamente risentimento verso l'eccellenza.

lunedì 11 marzo 2013

For the love of God

For the love of God, Damien Hirst 2007



Museo delle scienze Principe Felipe,
Santiago Calatrava, Valencia, 2000 (immagine rimossa per segnalazione)


Ho messo due opere che, per lo stesso motivo, mi ripugnano. E' una sensazione che assomiglia  a quella che provo davanti alle tele di Shiraga. Credo pure di capirle queste cose, non le sottovaluto... ma mi pare che in tutte queste manchi quello che a me fornisce  la materia prima del fruire il fare artistico, cioè quell'istinto primordiale del fare per narrare. Qui non c'è questa mediazione, l'interpretazione, l'astrazione ma solo una diretta e passiva imitazione della natura ed in particolare della fisicità attuata in varie maniere. Ho già scandalizzato molti colleghi dicendo che non mi piace per nulla Calatrava... Eppure è una questione di sensibilità: davanti alle sue opere mi si mette a suonare un campanello d'allarme, magari sono io quella sbagliata. Ma forse ho sentito qualcosa di disturbante, che c'è, oppure qualcosa di necessario, che manca, davvero.


Stan Winston School Conference Room

Propongo un luogo perfetto per parlare di queste cose...





martedì 5 marzo 2013

A proposito dell'essere capaci



Un commento di Mad introduce un'altra prospettiva al concetto di "essere capaci" chiamando giustamente in causa artisti dotati di una potenza comunicativa spontanea, apparentemente ignara delle tecniche tradizionali, che si traduce immediatamente in equilibrio, armonia e "senso". Mad porta ad esempio (secondo me molto opportunamente) Jean Michel Basquiat (di cui posto solo un frammento per problemi di copyright).
A mio parere il paragone vale ancora di più con gli artisti totalmente informali, quelli che compiono l'opera senza pianificazione alcuna e la sviluppano con l'action painting.
Li ho sempre ammirati forse perchè posseggono una dote della quale sono privo, che è quella di rischiare. Torno a postare un quadro di Shiraga (questa volta si tratta praticamente di un inedito, un quadro del 1961 presente in una collezione privata e fotografato da A. Pastorino) per evidenziare il concetto che voglio esprimere: Shiraga dipingeva col corpo, il suo dibattersi sulla tela spargeva i colori.
Io penso che tutti potrebbero cimentarsi in un impresa del genere (a parte il costo dei colori) proprio per verificare se riescono ad evocare qualche potenza espressiva. E' evidente che tutti possono buttare dei gnocchi di colore su una grande tela e poi possono rotolarci sopra oppure possono sperimentare altre tecniche che si affidano ad una specie di casualità controllata. Sarà il risultato (ovvero la complicità col destino) a determinare se è arte o meno, se l'autore è un artista o meno.
A mio parere l'opera di Shiraga qui riprodotta è un vero capolavoro, ma mi rendo anche conto che per molte persone il capolavoro non è individuabile, e sono certo che non è solo un problema di cultura...

domenica 3 marzo 2013

Super reale




 Douane Hanson - Donna e cane 1977

Giuseppa Mallia - Immersione, 2012


Ivan Konstantinovič Ajvazovskij -Tra le onde, 1898


Ecco, a proposito dell'essere capace. 
P. S.: le sculture iperrealiste forse sono arte.
E lo dico senza nessun ragionamento critico, ma solo perchè mi è capitato di avere una reazione istintiva molto forte in loro presenza. 

sabato 2 marzo 2013

"Formalità"


Grazie a tutti per i commenti al post precedente. Sono perfettamente consapevole che il paradigma dell'arte figurativa sia andato in crisi a partire dai primi anni del Novecento. Ma una prima obiezione abbastanza diffusa e ormai accreditata afferma che nessuna arte è mai stata "figurativa", nessuna arte si è mai posta il problema di riprodurre la realtà sic et simpliciter. Neppure alla fotografia si può applicare il concetto di semplice cattura e riproduzione di un brandello di realtà. Quindi in un certo senso non c'è mai stata una vera soluzione di continuità tra Piero della Francesca e Jackson Pollack. Sono inoltre perfettamente consapevole dei motivi che hanno spinto molti artisti a praticare un'arte che non fosse più riproduzione di qualcos'altro rispetto a se stessa. La risposta dell'arte informale di fronte all'ingenua domanda dei primi visitatori che chiedevano: "cosa rappresenta quest'opera?" era: "Rappresenta se stessa".
Non c'è dubbio, è stato un grande momento. L'opera d'arte scioglieva qualunque suo tramite di referenze, non era più il significante di un significato, diventava significato. Bellissima intuizione. L'arte non ha più il compito di riferire qualcos'altro rispetto a se stessa, l'opera non è più il ritratto di qualcos'altro, è.
Ma in quel passaggio ci sono ancora altre motivazioni, ancora più profonde. Ovvero la grande domanda sui nostri strumenti di rappresentazione, il rapporto che abbiamo con essi. Quando nel 1977 ascoltai per la prima volta l'LP "Septober Energy", album di jazz/progressive rock della big band Centipede prodotto da Robert Fripp nel 1971, ricordo che feci a caldo una prima considerazione: quando uno ha saputo tirare fuori il meglio da uno strumento (in questo caso uno strumento musicale), quando lo ha frequentato per anni e ne ha percorso tutte le potenzialità armoniche, è logico che tenti di andare oltre, che provi a "tirargli il collo" per fargli fare qualcosa di nuovo. In questo andare oltre c'è anche una sfida alle nostre categorie estetiche, perchè necessariamente il nuovo prodotto deve cercare di scardinare la nostra idea di bello, di piacevole, di edificante eccetera. Per molti artisti dalla metà del Novecento in poi, "andare oltre" è stato più importante di ogni altra cosa. E per andare oltre è necessario interrogarsi sugli strumenti, individuare quali strumenti e quali modalità di utilizzo degli strumenti ci può condurre "oltre". Credo che sia successa una cosa simile anche nelle arti figurative.
E se vogliamo andare a ben vedere, in un movimento molto più lento e più ampio, è successo anche nella filosofia, con il suo spostamento dall'asse ontologico all'asse epistemologico. Vale a dire: invece di occuparmi di cosa sia l'essere, comincio ad occuparmi dei sistemi con cui tento di definirlo, perchè se non ho chiaro il ruolo fondamentale che gioca lo strumento ( il linguaggio, nel caso della filosofia), non posso arrivare da nessuna parte. Anzi, ancora di più: lo strumento diventa struttura, incornicia e formatta il significato, quindi è il significato.
E' un processo che McLuhan ha sintetizzato benissimo con la celebre frase "il mezzo è il messaggio", ed è inequivocabile, e diventa sempre più vero man mano che ci si addentra nello studio dei processi neurofisiologici di assorbimento dei messaggi. Forma e contenuto non sono separabili, non sono scindibili. Come in fisica siamo passati allo spaziotempo, nella comunicazione (e nell'arte, che ne è un caso particolare) siamo passati alla formacontenuto.
Così è successo (ma forse solo in apparenza) che si sono abbandonati i grandi obiettivi, ritenuti irraggiungibili, e tutte le funzioni trascendenti dell'arte e della filosofia sono rimaste un po' in sospeso. E' come se le grandi domande fossero rimaste congelate sullo sfondo, e in primo piano, e cioè accessibile per noi, ci fossero soltanto le contingenze, l'estemporaneo, il suggestivo immediato e lo stupefacente, l'innovativo e l'inconsueto. Non avendo stumenti per affrontarlo o per descriverlo, l'Assoluto ha cessato di essere una delle nostre preoccupazioni.


Non è che sia sparito: secondo me per esempio nelle tavole di Shiraga c'è molto più assoluto di quanto non ce ne sia nella pittura del Cinquecento, per esempio. Solo che quell'assoluto non è enunciato, non è disponibile... diciamo che trapela solo per i colti. Citando la "nostra" contributrice Luisa Barabino, trapela per quell'intellettuale che gode a capire quello che agli altri resta oscuro. Neppure, trapela "veramente" solo per i colti che hanno saputo abbandonare la cultura e tornare istintivi, quindi pochissimi. Ma forse a tutto ciò è legato (come causa, come effetto o, più junghianamente, come sincronicità) l'impoverimento spirituale di noi esseri contemporanei. E' possibile che il tremendo decadimento sociale degli ultimi decenni abbia a che fare con tutto questo?