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lunedì 11 marzo 2013

For the love of God

For the love of God, Damien Hirst 2007



Museo delle scienze Principe Felipe,
Santiago Calatrava, Valencia, 2000 (immagine rimossa per segnalazione)


Ho messo due opere che, per lo stesso motivo, mi ripugnano. E' una sensazione che assomiglia  a quella che provo davanti alle tele di Shiraga. Credo pure di capirle queste cose, non le sottovaluto... ma mi pare che in tutte queste manchi quello che a me fornisce  la materia prima del fruire il fare artistico, cioè quell'istinto primordiale del fare per narrare. Qui non c'è questa mediazione, l'interpretazione, l'astrazione ma solo una diretta e passiva imitazione della natura ed in particolare della fisicità attuata in varie maniere. Ho già scandalizzato molti colleghi dicendo che non mi piace per nulla Calatrava... Eppure è una questione di sensibilità: davanti alle sue opere mi si mette a suonare un campanello d'allarme, magari sono io quella sbagliata. Ma forse ho sentito qualcosa di disturbante, che c'è, oppure qualcosa di necessario, che manca, davvero.


Stan Winston School Conference Room

Propongo un luogo perfetto per parlare di queste cose...





3 commenti:

  1. Fare per narrare - Fare per sfoggiare
    Fare per amor di fare - Fare per usare

    ("fare per narrare" è la frase più femminile che ho sentito in questi ultimi tempi, bella)

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  2. Anche a me provoca una specie di ripugnanza il teschio di Hirst... era una delle opere che mi ero proposto di postare, solo che non sapevo come commentarla. Forse nel tuo post ho trovato una spiegazione. Sono d'accordissimo su quello che dici a proposito del "fare per narrare". Non penso che si tratti però di assenza di mediazioni, è solo che non siamo in sintonia con questo modo di applicare mediazioni. Su Calatrava... forse andrebbe fatto un discorso a parte, io mi inchino davanti a tanta bravura, nel senso di perizia nel fare. Non lo amo come non amo nessuna architettura demiurgica che si impone troppo, mi ricorda quelle persone egocentriche che non si curano degli altri mentre affermano di ascoltare tutti. Bellissime le quattro definizioni di MJ nel commento precedente. Potrebbe essere la base di una teoria dell'estetica!!! Mario, sei veramente efficace.

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  3. mumle mumle... misoginia-filoginia...
    Mi sono abituata a pensarla come "narratività" magari c'è una parola più condivisibile per dirlo, ma insomma, quando uno stile, un movimento, un discorso artistico si esaurisce e conclude, beh, mi sembra che si possa dire che non ha più niente da dire, non narra più nulla... Usare la parola narratività mi sembra un modo più completo, riferibile al tempo in cui si agisce, rispetto al termine comunicare, che può ed anzi deve essere un fatto istantaneo.
    Comunque, per il mio modo di pensare, certe cose in arte hanno ben poca narratività, anche se mi comunicano sensazioni. Quando persone poco abituate a frequentare l'arte moderna mi dicono che certe cose a loro danno fastidio rispondo invariabilmente che allora vuol dire che chi le ha fatte ha raggiunto il suo scopo. Quando qualcosa mi urta quindi mi faccio sempre un bell'esame di coscienza... però qualche volta devo proprio concludere che magari ci può essere un limite, un aspetto nell'opera, che magari io vedo e altri no.
    Su Calatrava: a me la mancanza di tettonicità provoca diverse reazioni ma, se m'inchino di fronte al Guggenheim
    di Wright e a tante altre strutture a-tettoniche, mi scoccio davanti a Calatrava: è il fatto che si ispiri a scheletri (cosa che ho scoperto molto dopo aver provato avversione) che in definitiva mi provoca rifiuto. Ecco, secondo me l'ispirazione di Calatrava non è all'altezza dei temi che svolge. Il consenso estetizzante verso quelle immagini completa la mistificazione. Torniamo all'essere capaci... Calatrava è capace a: "piacere a tutti" (quasi).

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