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sabato 2 marzo 2013

"Formalità"


Grazie a tutti per i commenti al post precedente. Sono perfettamente consapevole che il paradigma dell'arte figurativa sia andato in crisi a partire dai primi anni del Novecento. Ma una prima obiezione abbastanza diffusa e ormai accreditata afferma che nessuna arte è mai stata "figurativa", nessuna arte si è mai posta il problema di riprodurre la realtà sic et simpliciter. Neppure alla fotografia si può applicare il concetto di semplice cattura e riproduzione di un brandello di realtà. Quindi in un certo senso non c'è mai stata una vera soluzione di continuità tra Piero della Francesca e Jackson Pollack. Sono inoltre perfettamente consapevole dei motivi che hanno spinto molti artisti a praticare un'arte che non fosse più riproduzione di qualcos'altro rispetto a se stessa. La risposta dell'arte informale di fronte all'ingenua domanda dei primi visitatori che chiedevano: "cosa rappresenta quest'opera?" era: "Rappresenta se stessa".
Non c'è dubbio, è stato un grande momento. L'opera d'arte scioglieva qualunque suo tramite di referenze, non era più il significante di un significato, diventava significato. Bellissima intuizione. L'arte non ha più il compito di riferire qualcos'altro rispetto a se stessa, l'opera non è più il ritratto di qualcos'altro, è.
Ma in quel passaggio ci sono ancora altre motivazioni, ancora più profonde. Ovvero la grande domanda sui nostri strumenti di rappresentazione, il rapporto che abbiamo con essi. Quando nel 1977 ascoltai per la prima volta l'LP "Septober Energy", album di jazz/progressive rock della big band Centipede prodotto da Robert Fripp nel 1971, ricordo che feci a caldo una prima considerazione: quando uno ha saputo tirare fuori il meglio da uno strumento (in questo caso uno strumento musicale), quando lo ha frequentato per anni e ne ha percorso tutte le potenzialità armoniche, è logico che tenti di andare oltre, che provi a "tirargli il collo" per fargli fare qualcosa di nuovo. In questo andare oltre c'è anche una sfida alle nostre categorie estetiche, perchè necessariamente il nuovo prodotto deve cercare di scardinare la nostra idea di bello, di piacevole, di edificante eccetera. Per molti artisti dalla metà del Novecento in poi, "andare oltre" è stato più importante di ogni altra cosa. E per andare oltre è necessario interrogarsi sugli strumenti, individuare quali strumenti e quali modalità di utilizzo degli strumenti ci può condurre "oltre". Credo che sia successa una cosa simile anche nelle arti figurative.
E se vogliamo andare a ben vedere, in un movimento molto più lento e più ampio, è successo anche nella filosofia, con il suo spostamento dall'asse ontologico all'asse epistemologico. Vale a dire: invece di occuparmi di cosa sia l'essere, comincio ad occuparmi dei sistemi con cui tento di definirlo, perchè se non ho chiaro il ruolo fondamentale che gioca lo strumento ( il linguaggio, nel caso della filosofia), non posso arrivare da nessuna parte. Anzi, ancora di più: lo strumento diventa struttura, incornicia e formatta il significato, quindi è il significato.
E' un processo che McLuhan ha sintetizzato benissimo con la celebre frase "il mezzo è il messaggio", ed è inequivocabile, e diventa sempre più vero man mano che ci si addentra nello studio dei processi neurofisiologici di assorbimento dei messaggi. Forma e contenuto non sono separabili, non sono scindibili. Come in fisica siamo passati allo spaziotempo, nella comunicazione (e nell'arte, che ne è un caso particolare) siamo passati alla formacontenuto.
Così è successo (ma forse solo in apparenza) che si sono abbandonati i grandi obiettivi, ritenuti irraggiungibili, e tutte le funzioni trascendenti dell'arte e della filosofia sono rimaste un po' in sospeso. E' come se le grandi domande fossero rimaste congelate sullo sfondo, e in primo piano, e cioè accessibile per noi, ci fossero soltanto le contingenze, l'estemporaneo, il suggestivo immediato e lo stupefacente, l'innovativo e l'inconsueto. Non avendo stumenti per affrontarlo o per descriverlo, l'Assoluto ha cessato di essere una delle nostre preoccupazioni.


Non è che sia sparito: secondo me per esempio nelle tavole di Shiraga c'è molto più assoluto di quanto non ce ne sia nella pittura del Cinquecento, per esempio. Solo che quell'assoluto non è enunciato, non è disponibile... diciamo che trapela solo per i colti. Citando la "nostra" contributrice Luisa Barabino, trapela per quell'intellettuale che gode a capire quello che agli altri resta oscuro. Neppure, trapela "veramente" solo per i colti che hanno saputo abbandonare la cultura e tornare istintivi, quindi pochissimi. Ma forse a tutto ciò è legato (come causa, come effetto o, più junghianamente, come sincronicità) l'impoverimento spirituale di noi esseri contemporanei. E' possibile che il tremendo decadimento sociale degli ultimi decenni abbia a che fare con tutto questo?

4 commenti:

  1. Mi viene un'idea,
    sono capace di realizzarla,
    sono capace di mostrarla.

    Oppure

    Gioco,
    sono capace di trovare una cosa speciale,
    Sono capace di mostrarla.

    "capace" è importante.

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  2. E' verissimo, è certamente uno dei fulcri del problema. E' che è cambiato anche il concetto di "capace": prima capace era chi aveva fatto anni di accademia, disegno, appreso tecniche. Oggi capace è chi si sa promuovere, chi riesce a stupire, scandalizzare o sorprendere.

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  3. Risposta alla domanda finale del post: sì! Ma era una domanda retorica, vergogna!
    L'impoverimento socioculturale è la causa e non la conseguenza... (vedi il rinascimento che si fonda sulla ricchezza del medioevo commerciante e sulla sapienza dei costruttori gotici... si teorizza dopo aver fatto; provare a fare il contrario porta all'inferno, come i fatti attuali ci stanno comodamente dimostrando). L'arte "alta" è il frutto di una società forte, sicura di sé.
    O no?

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  4. L'arte "alta" è il frutto di una società forte, sicura di sé. Altra bellissima questione!

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