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lunedì 2 dicembre 2013

Alcuni commenti di rilievo

Riporto qui di seguito, per una lettura di raccordo, alcuni commenti dei contributors di questo blog. Mi sembra che ci siano un bel po' di presupposti per alimentare il nostro piccolo dibattito, che come suggerisce MarioJan, potrebbe ripartire dall'interrogarsi sulle finalità del fare.
Sull'intervento alla polvere da sparo di Jerry (che chiama in causa nuovamente il saper fare), posso solo dire che forse non tutto il dopo Duchamp è da buttare, e ribadisco che avendo Duchamp spostato l'attenzione dal risultato all'atto, è bastato fare atti artistici e liberarsi della tecnica come di un inutile fardello. La cosa secondo me non ha avuto solo risvolti negativi; il problema vero è che Duchamp ha azionato lo skàndalon (nell'antica Grecia così si chiamava l'asticella che fa scattare la trappola) e molti ci sono caduti dentro, credendo che se Duchamp aveva esposto un orinatoio, trent'anni dopo fosse altrettanto eversivo e geniale esporre un bidè.
C'è poi l'interessante intervento di Luisa, che ribalta (se interpreto bene) tutto il processo artistico nello spettatore: avendo un accesso adeguato, tutta l'arte si squaderna e diventa godibile, forse addirittura migliore dell'opera, se lo spettatore è migliore dell'autore.
Luca (il cui contributo è arrivato via mail) sembra voler ribadire i capisaldi dell'arte sic et simpliciter (si fa per dire!) e, da artista, suggerisce di non preoccuparsi tanto del chiacchiericcio dell'arte e sull'arte, ma di lavorare seriamente con completa onestà intellettuale.

Mi sembrano tutti contributi di grande rilievo e ottimi stimoli per ampliare la discussione (anche se forse c'è in tutti, e anche nel sottoscritto) un po' di riduzionismo)


Mario Jan

02 marzo 2013 10:09
Mi viene un'idea, sono capace di realizzarla, sono capace di mostrarla.
Oppure:
Gioco,
sono capace di trovare una cosa speciale, sono capace di mostrarla.
"capace" è importante.

12 marzo 2013 14:32
Fare per narrare - Fare per sfoggiare
Fare per amor di fare - Fare per usare
"fare per narrare" è la frase più femminile che ho sentito in questi ultimi tempi, bella

Luca Sturolo

" il sentimento di poter creare organicamente, cioè come la natura stessa, compensa tutte le amarezze che ne sono la conseguenza - insuccesso, incomprensione, allontanamento - e, più difficile da ammettere, l'isolamento. Questo sentimento agisce come un contrappeso a tutto ciò. Dà una vera indipendenza di fronte al tempo, una pace indicibile di fronte alla natura (...)Ecco il mio scopo, uno scopo che vale forse qualche sacrificio "
Wilhelm Furtwangler 1942

" Scopo dell'arte non è una momentanea eccitazione ma la costruzione graduale di uno stato di meraviglia che dura tutta la vita "
Glenn Gould

" Vado alla finestra, guardo fuori nella notte, la montagna nera, il cielo scintillante di infinite stelle e il rumore dell'acqua. Oh, si, come i fiori anche gli uomini continuano, mai del tutto uguali, ma loro, loro dipingono e questo cambia tutto "
Alberto Giacometti 1952 " Grigio, bruno, nero (Georges Braque )"


Qualora non bastassero le opere, penso sia sufficiente confrontare questi brevi scritti di tre grandi artisti con una qualsiasi delle dichiarazioni, pseudo-provocazioni verbali e non verbali di una qualsiasi delle torve cinciallegre della cosiddetta arte contemporanea, per comprendere la differenza di forma e sostanza; quindi tutta la questione."


Jerry Marsala

Dopo Duchamp il nulla. L'arte concettuale ha fatto il suo tempo, però è di facile realizzazione. Basta trovare un bel titolo e un'efficace motivazione. I critici sono dei copywriter magnifici in questo. Lo sgomento, la sorpresa..lo scandalo di coloro che quasi un secolo fa provarono con la ruota o il cesso di Duchamp (...) oggi fa sorridere. Rimango più scioccato alla vista di blob su Rai3 o di una serata D'Alessio/Tatangelo, piuttosto che una visita alla Biennale di Venezia. Però davanti a un quadro di Bosch (Hieronymus), mi incanto ancora e scopro cose nuove. Sai come la penso: una volta i pittori, gli scultori ecc. erano prima di tutto artigiani. Maestri nella loro tecnica. L' Art Noveau/Decò, coraggiosamente, aveva rimesso in discussione stili passati, architettura, elementi decorativi, materiali, linguaggio ecc. ma con competenza, padronanza dei mezzi, potenza creativa. Poteva non piacere, d'accordo, ma immaginiamo per un momento di avere un foglio bianco davanti e una matita e proporsi di realizzare qualcosa di completamente nuovo, non da chiudere in un qualche museo ed essere "capito" da 4 intellettuali. Ma qualcosa alla portata di tutti. Bene, non ne siamo più capaci (...). Non so se Dio è morto, ma l'"arte" certamente è agonizzante.



Luisa Barabino

Le parole che spiegano un quadro, un'opera, sono quasi sempre sbagliate: le critiche artistiche sono spesso risibili, non centrano mai il concetto vero, sono esercizi di erudizione, ma non colgono il gioco e l'ironia che solo altri artisti possono cogliere. L'arte non è di tutti né per tutti. In questo senso è spesso la negazione di se stessa in quanto autoreferenziale. E' qui che porrei una seria discriminante.
E poi: la massa ama l'arte che crede di capire...
Il post tocca - lateralmente - un argomento che ero tentata di postare ieri... sentendomi in dovere di contribuire. La mia osservazione era sicuramente più semplicistica, ma interrogava sul fatto che chiunque si avvicini al mondo della creatività e dell'arte, perché ne è attratto e vuole esprimersi "artisticamente", ma è magari carente di sensibilità e educazione del gusto, finisce sempre inevitabilmente nel kitsch (del pagliaccio con lacrima, ma non solo...).
L'arte non è per tutti, non lo è mai stata e non lo sarà mai. La differenza tra un gruppo di macerie e l'installazione... non so, direi che è arte, magari, forse, dovrei vedere caso per caso, ma normalmente dura poco, perde narratività molto più in fretta di altri prodotti.
E' passato il tempo in cui la sperimentazione aveva valore artistico: siamo oltre, dove, non so. (LB)

Si teorizza dopo aver fatto; provare a fare il contrario porta all'inferno. (LB)

venerdì 29 novembre 2013

Concettuale ed estemporaneo


Quest'opera (Jasper Nouri, 2002) sembra condensare in sè una serie di requisiti/quesiti necessari per essere una Rilevante Opera d'Arte Contemporanea di Carattere Concettuale.

1) Si propone come sufficientemente SORPRENDENTE; ovvero tenta di incunearsi come una discontinuità nel nostro panorama visivo abitudinario. Nell'operazione di questo scotoma che fa fare un salto alla nostra visuale/visione stereotipica, l'opera raccoglie la nostra attenzione e la nostra considerazione. Senza sorpresa questi obiettivi possono essere raggiunti con maggiore difficoltà.

2) E' GRANDE; ovvero occupa dimensioni o proiezioni che trascendono la dimensione umana e quella domestica. Sono opere pensate per spazi museali, vuoti. Un'opera del genere è anche pressocchè Inacquistabile da un privato che desideri mettersela in casa (a meno che non disponga di spazi enormi)
e della relativa intrasportabilità (che necessiterebbe di un'altra installazione).

3) E' FOTOGENICA, perchè la veicolazione delle immagini delle opere è enormenmente maggiore della loro visione diretta.

4) E' METAICONICA, rispondendo forse ai requisiti dell'anti-arte di cui si è parlato nel precedente post 
http://scenariovisivo.blogspot.it/2013/03/le-origini-dellanti-arte.html

5) E' COMUNICATIVA, nel senso che deve essere pronta a ricevere proiezioni di tipo concettuale o comunque significatorio (anche pre-cosciente).
Questo punto merita almeno un altro post, perchè apre il campo alla famosa polemica sull'accesso all'arte e sulla relativa necessità di una preparazione culturale adeguata.

6) Quest'opera di Nouri propone anche il problema della PERMANENZA, e, opportunamente, si propone come impermanente, o quasi (bisogna infatti considerare come sarebbe difficile liberare quest'opera dalla polvere, e in ogni caso preservare i materiali dal deterioramento).

Grande è significativo?




Comincierei questa riflessione sulle dimensioni presentando quest'opera di Thomas Jamak intitolata Locution e presentata alla Nachteilezeight di Berlino nel 2002.
Alberich Württemberg, il più importante critico tedesco, ha scritto di Jamak che con la sua opera ha definitivamente eliminato il confine tra ciò che è dentro e ciò che è fuori e che la scultura ha finalmente dichiarato il suo essere estranea alla materia.


Non voglio ingannare nessuno, e immagino di non esserci riuscito, ma ovviamente dichiaro che è tutto falso. Falso il nome dell'autore che ho inventato io (chiedo scusa ad eventuali omonimi). Falso il nome dell'opera, falsa la foto, falso il critico (idem per gli omonimi) e le sue affermazioni. 
In realtà la foto è un montaggio di una matassa di filo di ferro plastificato che mi sono trovato in mano dopo avere tolto la spirale a una vecchia agenda prima di buttarla nella carta da riciclare.


Prima di buttare la spirale ormai arrotolata in una matassa inutilizzabile l'ho osservata. L'ho trovata interessante, soprattutto perchè l'ho appallottolata inconsapevolmente, senza alcun obiettivo artistico. E prima di consegnarla all'Azienda Municipalizzata ho deciso di conferirle un ultima visibilità. E' arte? Se anzichè essere un'oggettino insignificante di pochi centimetri fosse una presenza alta almeno sei o sette metri, il suo valore estetico/ rappresentativo/ comunicativo, cambierebbe? Il suo valore significativo cambierebbe? Avrebbe una maggiore dignità? In molti casi, negli ultimi anni, ho avuto la sensazione che fosse sufficiente un cambio dimensionale per conferire importanza a un'opera. 


Se il celebre ragazzino gigante di Ron Mueck fosse alto venti centimetri, sarebbe solo una statuetta? Continuerebbe ad essere arte o sarebbe artigianato? E' giusto dire che le grandi dimensioni - di per se stesse - sono un elemento qualificativo dell'arte contemporanea? P.S. Se qualcuno volesse comprare la mia matassa, ne possiamo parlare: è il bozzetto per un'opera in fibra di carbonio alta 74 metri.


giovedì 28 novembre 2013

Considerazioni su una presunta opera d'arte

Istruzioni per creare un micro-dibattito intorno all'arte contemporanea

1) Dipingete un quadro con una tecnica pittorica che evochi il passato (io ho simulato il divisionismo, ma va bene qualunque stile, purchè non si superi il primo Novecento)

2) Cercate di realizzare l'opera con la migliore tecnica di cui disponete per imitare o ricalcare fedelmente lo stile che avete scelto. Il risultato deve essere soddisfacente, e sufficientemente simile alle opere del periodo prescelto.

3) Incorniciatela adeguatamente, ovvero trovando una cornice che simuli una certa contemporaneità con l'opera. (Se simulate un'opera antica, abbiate cura di far camolare la cornice).

4) Intitolate l'opera con una locuzione congrua alla datazione (io ho chiamato la presente opera "Sera a Capieso" oppure "Elisa e Giulia al tramonto".

5) Mostrate l'opera ai vostri amici (quelli un po' esperti d'arte, non le vecchie zie), dichiarando che è una vostra realizzazione, che si rifà a un qualche cosa del passato.



Noterete che - a parte qualche complimento per la tecnica - raccoglierete apprezzamenti un po' pallidi, assensi forniti un po' obtorto collo. I più malevoli vi diranno che sembra una scatola di ciccolatini.

6) Se però voi, prima di mostrare l'opera vi siete dotati di una trousse di poliestere arancione semi-trasparente comprata dai cinesi ...



e poi l'avete saldamente attaccata alla vostra opera, in questo modo:



Noterete che i giudizi saranno più favorevoli. L'opera dovrà essere rigorosamente "senza titolo", e alla mesmerica enunciazione della mancanza di enunciati espliciti i giudizi miglioreranno ancora, forse qualcuno la difinirà addirittura "geniale".
Come sempre, non c'è polemica in queste considerazioni. Solo il desiderio di portare l'attenzione sul valore della trousse, dell'atto di apporre la trousse e di come l'applicazione dellla trousse possa in un attimo catapultare un'opera "in avanti" di qualche secolo e addirittura, come in questo caso, trasformare una banale opera di artigianato manuale in qualcosa che aspira ad essere arte.

giovedì 4 aprile 2013

Inquinamento da stereotipi


la fotografia è tratta dalla raccolta di Ico Gasparri "Chi è il maestro del lupo cattivo"



pubblico qui il mio intervento per la campagna di sensibilizzazione realizzata nel 2009 per la Provincia di Genova
Assessorato Pari Opportunità (Marina Dondero).

come premessa...


Come premessa vale la pena di riportare un brano tratto dal portale del Comune di Torino, pagina delle Pari Opportunità: 

“L'immaginario di ogni società, in un determinato tempo e in un determinato luogo, costruisce una serie di aspettative intorno all'identità maschile o femminile. 
Queste aspettative tendono a fissarsi in stereotipi di ruolo; le differenze tra i generi e anche tra gli individui dello stesso sesso, invece che diventare occasioni e sollecitazioni per accrescere la comprensione del reale finiscono per costituire una sorta di "mappa congelata" che condiziona e limita l'agire e il pensare. 

Secondo il tradizionale stereotipo maschile, ancora largamente dominante anche nella cultura occidentale, l'uomo deve possedere autonomia, attivismo, senso della disciplina, logica, coraggio, rudezza, decisione negli obiettivi, spirito di avventura, ribellione, capacità di dominio, virilità. 
Al contrario la donna deve possedere sollecitudine, capacità di esprimere sentimenti, dipendenza, passività, remissività, attenzione e capacità di prendersi cura degli altri.

Come tutte le costruzioni sociali, i ruoli di genere non sono "naturali", possono presentarsi con modalità estremamente diverse da una società all'altra e possono cambiare nel tempo, ma in ogni caso la visione del maschile e del femminile prevalente in un contesto geografico e in un periodo storico influenza visibilmente La divisione sociale del lavoro, il livello di condivisione del lavoro domestico, la possibilità di accedere a determinate posizioni in ambito pubblico.

La condizione femminile nell'epoca moderna è stata segnata pesantemente dall'idea che la donna in quanto donna possieda una "natura" specifica, legata alla corporeità e alla sua potenzialità riproduttiva, che ne determina il modo d'essere. La donna, diversamente dall'uomo, non è definita in base alle sue attitudini in quanto persona, ma a partire dalla sua identità biologica, che diviene sinonimo di disuguaglianza e di inferiorità.

Alla diversità tra i due sessi si fa corrispondere una netta contrapposizione di compiti e di ambiti di appartenenza: alla donna competono "per natura " i ruoli di moglie e di madre, il suo valore è in funzione della sua capacità di prendersi cura della famiglia e della casa, non le vengono riconosciute capacità e possibilità di progettare in modo autonomo la sua esistenza. (...)

Le pratiche politiche e di relazioni e i saperi delle donne negli ultimi vent'anni hanno anche condotto ad una rivalutazione del concetto di differenza : le diversità biologiche e psicologiche, per secoli congelate in stereotipi difficili da sradicare e utilizzate per discriminare e segregare, quando vengono messe in campo liberamente da entrambi i sessi possono diventare preziose occasioni di ricchezza e di sviluppo equilibrato”. 


considerazioni generali sul problema


Quanto detto in precedenza dovrebbe ormai far parte di un sapere acquisito dal corpo sociale, al punto che riportando queste righe, si ha addirittura la sensazione di non dire niente di nuovo e di affermare genericamente un valore non riconosciuto, come quando si affermano i valori dell’ambiente o dei paesi sottosviluppati, con la sensazione che chi ci ascolta sappia già quello che stiamo dicendo ed abbia ricevuto le nostre stesse informazioni.
Allora la domanda da porsi (ovviamente non in questa sede) è “come mai questi ruoli sfidano e resistono al sapere che ne evidenzia il fallimento”. Poniamoci la domanda non perchè abbiamo l’ambizione di rispondere, ma perchè dobbiamo sapere che ogni azione che andiamo a intraprendere dovrebbe possibilmente fornire un sapere di tipo diverso, capace di modificare gli atteggiamenti senza rimanere sterile informazione che non sposta di un millimetro il nostro modo di vivere.
Partiamo dal presupposto, credo completamente condivisibile, che nell’attuale panorama pubblicitario (e mediatico in generale) la figura femminile è molto frequentemente relegata in uno o due  ruoli.  Tale ruoli, o “modelli” (miss, modella, valletta o”velina” in un caso, mamma, massaia, cuoca e “angelo del focolare” nell’altro) ne forniscono rappresentazioni sostanzialmente riduttiva, non veritiera, inadeguata e soprattutto, come detto nell’introduzione, basata su caratteri biologici e apparentemente ignara delle reali e molteplici caratteristiche dell’universo femminile.
Questo “modello femminile”, pur non essendo una novità, rispetto alle considerazioni introduttive negli ultimi anni si è accentuato in maniera iperbolica ed ha assunto livelli di diffusione, di reiterazione e di omologazione da rendere necessaria una nuova serie di riflessioni sulle origini, sulle conseguenze, sugli effetti e anche sul “successo” di tale modello.
Non dimentichiamoci che i modelli moderni sono davvero capaci di creare un campo gravitazionale di attrazione, che incide su aspettative, desideri, pensieri e valori di quello che una volta si chiamava “il pubblico”.

cultura, quando comanda il consenso


Va detto che tale modello si afferma in maniera contestuale  ad una assenza di dibattito sociale sul ruolo della donna, almeno a livello di grandi media, ma in maniera ancora più significativa ad un abbassamento della soglia di critica dei telespettatori/consumatori/utenti.
Questa affermazione potrebbe risultare opinabile, in quanto si può obiettare che negli ultimi anni sono cresciuti il livello culturale, l’informazione, l’istruzione, e conseguentemente anche la capacità critica delle persone, che dovrebbero poter discernere con maggior facilità tra i modelli esistenti, ed esercitare su di essi libere valutazioni.
Per sostenere questa affermazione, e cioè che vi è una tendenza ad abbassare la soglia di critica, che è un probabile fulcro del problema, mi servo di una premessa da pubblicitario. (Lombardi M, Manuale di tecniche pubblicitarie, Franco Angeli 1998).  Nel percorrere gli effetti della pubblicità, teniamo sullo sfondo due strutture: un’industria culturale primaria (scuola, editoria, media, cinema, teatro, arti) la quale riveste una funzione ideologica; un’industria culturale secondaria (pubblicità) che ha invece una funzione retorica. 
Questo non per scagionare i pubblicitari (i quali non sono certo esenti da responsabilità nell’affermazione e nella divulgazione di modelli comportamentali e nel suggerire i cosiddetti “orientamenti valoriali”), ma soltanto per sottolineare che i modelli culturali vengono prodotti  “prima” che i pubblicitari li amplifichino rendendoli simili a mitologie moderne.

Come si è abbassata la soglia critica? Lo chiarisco subito, perchè non penso certo a ipnosi di massa o a messaggi subliminali. La faccenda è assai più banale e meno fantascientifica. Si tratta del fatto che negli ultimi anni, l'industria culturale primaria è caduta nella trappola del consenso, ricercando sempre un riscontro numerico (economico, di ascolti, di diffusione, di copertura o di penetrazione) alle proprie produzioni. Non cercando idee ma cercando successi. E possibilmente successi a portata di mano e che costassero il meno possibile. Quindi niente idee e niente rischi, perchè “non si sa come la prenderà la gente”. In poche parole è successo quello che afferma benissimo il sociologo francese Jean Baudrillard, quando dice che non è più necessario “produrre” opinioni, ma è sufficiente “riprodurre” l’opinione pubblica.
In quest’ottica, produzioni che scandalizzano gli intellettuali più ortodossi come i reality, le soap, oppure i quiz, trovano per intero la loro ragione di essere. E nella logica di “chi si somiglia si piglia”, siamo in un vortice in cui il cane si morde la coda. E non se ne esce, almeno per ora. Siamo costretti a vedere modelli che si ispirano a chi li adotta, in una continua autocelebrazione circolare tra emittente e destinatario del messaggio. D’altra parte la questione è già dibattuta da tempo ed evidenziata in particolare dal rapporto tra indici di gradimento e dati d’ascolto (Casetti - Di Chio,  Analisi della televisione, Bompiani 1998)

dagli archetipi agli stereotipi


Ecco quindi che i media ripropongono e divulgano modelli (comportamentali, relazionali) che si ispirano a ciò che è già consolidato. Non più archetipi, come nella cultura classica, ma stereotipi. Archetipi e stereotipi possono essere visti come opposti: l’archetipo infatti è un modello che viene “dall’alto” (dalla religione, dal mito, dalla tradizione) e che ispira e si infonde nell’essere umano; stereotipo è invece un modello talmente diffuso nell’umano da essere “elevato” a emblema comune. Hanno origini opposte, ma entrambi sono punti di riferimento per la società, con un analogo potere. Con la differenza che l’archetipo è qualcosa di vivente, che si modifica e dialoga con l’interiorità delle persone mente lo stereotipo qualcosa di inanimato: se non proprio un cadavere, diciamo una statua al museo delle cere.  

Ora torniamo alla figura femminile, intrappolata e sedimentata più di ogni altra nel modello mediatico.  Apparentemente potrebbe sembrare che l’esperienza della vita quotidiana, condita con un po’ di informazione e un briciolo di sensibilità dovrebbe far cadere quest’impalcatura, ormai smantellata in maniera condivisa sul piano della conoscenza. 
Eppure questo accade raramente e sembra invece che gli stereotipi , o modelli culturali”mediatici” abbiano una capacità altissima di incidere sulle scelte delle persone, e non soltanto sui target meno colti e meno informati. Per esempio, l’incremento vertiginoso della spesa pro-capite femminile (ma anche maschile) per la cura della persona e il benessere, è già un’indicatore di questa tendenza. Diete, prodotti ipocalorici, fitness e attività fisiche, cure estetiche, cosmesi, chirurgia plastica sono diventati capitoli di spesa sempre più rilevanti nel bilancio familiare, trasversalmente a strati sociali con differente potere d’acquisto. 
Ma al di là di queste banali esemplificazioni, c’è un’ampia letteratura sui mass media e sul loro interferire e determinare in parte i processi di costruzione dell’identità, sempre più intesa come “il prodotto delle relazioni che ciascuna persona stabilisce con l’altro da sè”(Casetti - Di Chio,  Analisi della televisione) e molto raramente come ricerca dei propri reali talenti e della propria specifica identità.

pubblicità, dove la faccenda diventa eclatante


Assunto che lo stereotipo ha origini molteplici nella società, scegliamo la pubblicità come luogo dove questo aspetto diviene più eclatante e più evidente sia per il forte impatto semantico, sia per la reiterazione dei messaggi, che ci costringono alla loro acquisizione anche se non ne siamo pienamente intenzionati. E per acquisizione qui parliamo proprio di assunzione di modelli stereotipati. Nel senso che dopo aver visto uno spot che presenta una certa modella che si muove e si abbiglia in un certo modo, una giovane telespettatrice potrà non comprare il prodotto proposto, potrà forse addirittura dimenticare qual’era questo prodotto, ma avrà ricevuto informazioni/indicazioni su come ci si muove e su come ci si abbiglia in un certo ambiente così interessante, bello e gratificante, dove gli sguardi complici e i sorrisi allusivi si sprecano.
Quindi lo stereotipo lavora anche inconsciamente; anzi, si potrebbe quasi dire che mentre siamo impegnati a valutare il prodotto il modello entra in noi. Ecco perchè la ricerca che si sta per intraprendere deve a mio parere lavorare più nella direzione dell’inconscio e di quanto più o meno inconsapevolmente venga metabolizzato lo stereotipo, piuttosto che spingere ad un’azione razionale di identificazione o di denuncia su qualcosa che non va o che ci sembra sbagliato nella pubblicità. 

la promessa  


In pubblicità c’è sempre una promessa. I pubblicitari la chiamano “benefit” ed è il beneficio derivante dall’utilizzo del prodotto proposto. Tuttavia, negli ultimi anni la comunicazione di questo beneficio si è sempre più trasformata, e la pubblicità ha assunto un ruolo di suggeritore e influenzatore che agisce su molti livelli e non soltanto sulla dimostrazione delle prestazioni del prodotto proposto. E’ evidente che quando la proposta di beni è ampiamente sovrabbondante rispetto ai bisogni della gente, per spingere il pubblico a comprare bisogna inventare delle promesse che coinvolgono anche la sfera delle sensazioni, delle emozioni e talvolta perfino dei sentimenti.

Per chiarire meglio questo enunciato si potrebbe fare l’esempio di un detersivo, la cui promessa “reale” è quella di lavare. Ma se si analizza il messaggio pubblicitario di qualche grande marca di detersivi, si nota che questo enunciato compare come inciso e la promessa va ben oltre, con riferimenti al senso di protezione della famiglia, alla difesa della sicurezza della casa come luogo che ospita gli affetti, all’amore per i propri familiari ecc.
In sintesi, la pubblicità non mette in primo piano il prodotto, ma mostra uno stile di vita o un profilo esistenziale desideràbile, e poi rappresenta il prodotto come appartenente a quello stile di vita.
Affermazioni come “ogni acquisto è uno status symbol” e “siamo quello che consumiamo” si inquadrano proprio in questo scenario propositivo.
Quindi, associata ad ogni messaggio pubblicitario c’è sempre una promessa che determina la volonta d’acquisto. Desideri di prestigio, salute e lunga vita, comodità, sicurezza, buon nutrimento, guadagno, risparmio, protezione della famiglia, approvazione dall’altro sesso, risparmio di tempo, risparmio di fatica, divertimento (Wales, Gentry e Wales).
Oppure, molle per spingerci a comprare: avidità, amore e sesso, egotismo, salute, paura, eroismo, sensualità, curiosità, felicità familiare, piacere (Burton e Creer).
Curiosità, nella visione di Burton e Creer “amore e sesso” fanno una voce unica, non si sa se per la morale bacchettona dell'America fine anni 60 in cui si elaboravano queste teorie, o per una profetica confusione e cortocircuitazione che si sarebbe drammaticamente affermata negli anni.


la proposizione dello stereotipo


Questa visione appena proposta è nota ai pubblicitari da diversi decenni  e, quantunque ancora funzionante, si può dire che (come tutto in questi anni) si sia un po’ mixata e globalizzata, proponendo una nuova categoria di “super-stereotipi”, modelli ideali di persona che incarna un po’ tutto: abbiente, sana, bella, soddisfatta e a-problematica (di solito le persone problematiche nelle pubblicità sono comiche o buffe).
Il tutto non può trascurare la sua efficienza sessuale, che diviene frequentemente una promessa. (a titolo di esempio ricordo i due ragazzi che riprendono a fare l’amore in ascensore dopo che la ragazza ha assunto un’Aspirina, nello spot di tre o quattro anni fa, o delle vicine di casa che suonano alla porta in minigonna o accappatoio a cercare  formaggi, sgrassatori o anticalcare... Per arrivare alle incongruenze assolute come quella nella quale un’avvenente benzinaia si inzuppa con la pompa dell’acqua per promuovere l’autoricarica di una compagnia telefonica).
Ovviamente, come già detto in precedenza, non tutte le colpe possono essere addossate alla pubblicità, soprattutto pensando che questo modello efficientistico, sportivo, di successo e sessualmente attivo viene visto come la prova del nostro benessere e della qualità della nostra vita anche dal nostro psicologo o dal nostro medico curante. 
Tuttavia è nella pubblicità che si consolidano gli stereotipi, modelli tendenziali ai quali “bisogna” aderire il più possibile. E tra i modelli, si può affermare che quello femminile è quello di maggior successo e diffusione. Lo è a tal punto che anche l’immagine dell’uomo mediatico si è ultimamente molto “femminilizzata”, con impianti fotografici che evidenziano curve sinuose e corpi depilati e lisci, molto simili a quelli femminili.

i riflessi dello stereotipo


Oltre agli effetti genericamente indotti (e previsti) dalla pubblicità, (che sono in genere quelli di evidenziare o di far sorgere dei bisogni e di creare la convinzione che il soddisfacimento del bisogno passi attraverso l’acquisto del bene), l’utilizzo dello stereotipo proietta anche una serie di indicazioni che si riflettono sulla vita delle persone, in particolar modo su quei target groups dotati di minore senso critico (giovane età, mancanza di cultura, scarsa integrazione) e privati di altri modelli di riferimento non derivanti dai media.
Questo comunque non rende immuni le persone più colte o più integrate nella società, che talvolta assumono gli stereotipi come parametri di riferimento ai quale sovrapporre gli altri giudicandoli più o meno “buoni” sulla base della loro aderenza allo stereotipo. 
La presenza incombente di questi modelli ha riflessi sul piano materiale (spesa per raggiungere lo stereotipo, tempo dedicato alla cura del corpo), ma anche sul piano psicologico e sulle relazioni: questo accade sia per l’universo femminile che per quello maschile, dove lo stereotipo agisce formulando l’imperativo interno “come devo essere” per le donne e “come vorrei che fosse la mia lei” per gli uomini. Ad una prima analisi sintetica emergono già con evidenza tutta una serie di effetti:

“universo femminile”
nella scala dei valori
nell’autostima
nella proposizione di sè e nei comportamenti
nelle scelte economiche
nelle modalità di relazione
nelle scelte alimentari fondamentali

“universo maschile”
nella scala dei valori
nelle aspettative
nei criteri con cui valutare le relazioni
nelle modalità di relazione

Queste voci sono solo un’ipotesi preliminare. Possono essere ampliate, e per ognuna possono essere fatte diverse considerazioni, anche se bastano da sole a suggerire tutta una serie di contesti, di situazioni e di scelte che non è difficile vedere, specialmente nei più giovani. Tra i più eclatanti si potrebbero citare le migliaia di candidate alle selezioni tv, la richiesta molto diffusa del “seno” come regalo per il diciottesimo compleanno o per la laurea, per quanto riguarda le ragazze, senza voler includere nella prospettiva anche i disordini psico-alimentari. Quanto all’universo maschile sarebbe sufficiente citare le difficoltà di relazione, senza voler trovare un collegamento diretto con la crescita di violenza o il bisogno di supremazia, che comunque hanno anch’essi qualche aggancio con alcune rappresentazioni nei mass media.

Il potere dei media


Torno a dire in conclusione che questa ricerca sarebbe molto più utile, e potrebbe partire già con maggiore profondità se avessimo a disposizione una migliore conoscenza a livello sociale degli effetti dei media, ed in particolar modo del crescente ruolo che giocano nella costruzione dell’identità. Si effettuano studi sistematici sull’azione dei media ormai dagli anni trenta, passando da concezioni di potere “forte”, ad altre che lo relativizzano, (M. Wolf, Gli effetti sociali dei media, Bompiani 1992) tuttavia, dopo quasi un secolo, non siamo ancora in presenza di un quadro complessivo e organico sul potere dei media e sulle loro molteplici interazioni sulla sfera umana.
In primo luogo dipende dalla continua evoluzione dei media, e della loro capacità di modularsi sulla base della redemption che riescono a raccogliere. La materia da studiare, quindi, si muove e cambia contuinuamente. Inoltre, per un lungo periodo questo è dipeso dal fatto che la gran parte delle ricerche sui media avevano i media stessi come committenti, interessati ovviamente a scoprire le proprie potenzialità, e quindi solo una faccia della medaglia. Ma dalla fine degli gli anni 60 sono cresciute moltissimo le letture critiche, che hanno evidenziato i molteplici livelli di interazione dei media con la nostra esistenza (culturali, mentali, ideologiche, emotive, ma anche sensoriali, metaboliche e neurofisiologiche ).
Sarebbe tempo che quanto c’é di sedimentato in questa direzione potesse essere conosciuto da tutti, e che le istruzioni per l’uso dei media, almeno quelle fondamentali, non si limitassero a un bollino rosso o verde al lato del teleschermo per preservare i minori da visioni inadeguate.

domenica 17 marzo 2013

Le origini dell'anti-arte


Vorrei pubblicare per intero, se fosse possibile, l'interessantissimo articolo di Mario Perniola Impara l’arte, uscito oggi su Repubblica.
Perniola descrive la frattura sostanziale tra l'arte, anche quella contemporanea (che viene collocata dall'Impressionismo all'informale, 1860-1960), e ciò che è seguito, come anti-arte, fenomeno dilagante dagli anni sessanta ma che ha i suoi prodromi nel Dadaismo e soprattutto in Duchamp.
Anti-arte sarebbe "tutto quanto esula dalla pittura di cavalletto", quindi performance, installazione, street e body art, video ecc...
Dice Perniola: "L'anti-arte è una produzione in cui l'aspetto autodenigratorio e autodistruttivo prevale sull'opera"
Per spiegare l'anti-arte, ovvero una specie di allontanamento dall'immagine, o avversione per l'immagine, secondo l'autore bisognerebbe ricorrere a fattori extra-artistici quali la religione, la filosofia sociale e mediatica e altre discipline della cultura occidentale.
Non saremmo nuovi a quest'esperienza, che trarrebbe le sue origini dalla pregiudiziale aniconica di Platone (per cui l'arte essendo "copia di una copia" sarebbe due gradi lontana dalla verità), ma anche poi anche dalla diffidenza presente nella Bibbia  nei confronti delle rappresentazioni visive, che esporrebbero al rischio di idolatria.
A dare il colpo di grazia all'arte, sempre secondo Perniola, c'è l'anti-accademismo promosso da Rousseau che glorificava l'agire spontaneo e l'immediatezza dell'uomo naturale. E poi due eventi più recenti e definitivi: la Rivoluzione maoista in Cina, con la sistematica distruzione  di gran parte del patrimonio artistico della Cina imperiale e infine il movimento studentesco del '68 "che facendo proprio il principio secondo cui l'arte può essere fatta da tutti, indipendentemente dallo studio (...) e dalle capacità, favorì enormemente l'affermarsi di profondo risentimento nei confronti di ogni forma di eccellenza".

Le tesi sono molto interessanti. E contengono prospettive nelle quali mi riconosco. Rispetto alle deduzioni finali, mi è venuto però da obiettare che anche la rivoluzione culturale di Mao ha prodotto immagini, è che c'è stata un'estetica di regime, retorica e brutta quanto si vuole, ma penso che Mao volesse semplicemente negare il vecchio col nuovo come hanno fatto molti altri regimi totalitari. Riguardo alla rivoluzione studentesca, mi sembra che invece abbia abbondato di immagini, e su quell'onda possa essere collocata gran parte della fotografia, della pop-art, della grafica, della customizzazione degli standard, e le loro estensioni verso la psichedelia e le visioni extracorporee. Quanto al fatto che quella generazione abbia avuto risentimento verso ogni forma di eccellenza, rispondo solo: il tibutoricevuto da Elvis Presley, Jimi Hendrix, Eric Clapton, Led Zeppelin o Pink Floyd non mi sembra che si possa definire esattamente risentimento verso l'eccellenza.

lunedì 11 marzo 2013

For the love of God

For the love of God, Damien Hirst 2007



Museo delle scienze Principe Felipe,
Santiago Calatrava, Valencia, 2000 (immagine rimossa per segnalazione)


Ho messo due opere che, per lo stesso motivo, mi ripugnano. E' una sensazione che assomiglia  a quella che provo davanti alle tele di Shiraga. Credo pure di capirle queste cose, non le sottovaluto... ma mi pare che in tutte queste manchi quello che a me fornisce  la materia prima del fruire il fare artistico, cioè quell'istinto primordiale del fare per narrare. Qui non c'è questa mediazione, l'interpretazione, l'astrazione ma solo una diretta e passiva imitazione della natura ed in particolare della fisicità attuata in varie maniere. Ho già scandalizzato molti colleghi dicendo che non mi piace per nulla Calatrava... Eppure è una questione di sensibilità: davanti alle sue opere mi si mette a suonare un campanello d'allarme, magari sono io quella sbagliata. Ma forse ho sentito qualcosa di disturbante, che c'è, oppure qualcosa di necessario, che manca, davvero.


Stan Winston School Conference Room

Propongo un luogo perfetto per parlare di queste cose...