la fotografia è tratta dalla raccolta di Ico Gasparri "Chi è il maestro del lupo cattivo"
pubblico qui il mio intervento per la campagna di sensibilizzazione realizzata nel 2009 per la Provincia di Genova
Assessorato Pari Opportunità (Marina Dondero).
come premessa...
Come premessa vale la pena di riportare un brano tratto dal portale del Comune di Torino, pagina delle Pari Opportunità:
“L'immaginario di ogni società, in un determinato tempo e in un determinato luogo, costruisce una serie di aspettative intorno all'identità maschile o femminile.
Queste aspettative tendono a fissarsi in stereotipi di ruolo; le differenze tra i generi e anche tra gli individui dello stesso sesso, invece che diventare occasioni e sollecitazioni per accrescere la comprensione del reale finiscono per costituire una sorta di "mappa congelata" che condiziona e limita l'agire e il pensare.
Secondo il tradizionale stereotipo maschile, ancora largamente dominante anche nella cultura occidentale, l'uomo deve possedere autonomia, attivismo, senso della disciplina, logica, coraggio, rudezza, decisione negli obiettivi, spirito di avventura, ribellione, capacità di dominio, virilità.
Al contrario la donna deve possedere sollecitudine, capacità di esprimere sentimenti, dipendenza, passività, remissività, attenzione e capacità di prendersi cura degli altri.
Come tutte le costruzioni sociali, i ruoli di genere non sono "naturali", possono presentarsi con modalità estremamente diverse da una società all'altra e possono cambiare nel tempo, ma in ogni caso la visione del maschile e del femminile prevalente in un contesto geografico e in un periodo storico influenza visibilmente La divisione sociale del lavoro, il livello di condivisione del lavoro domestico, la possibilità di accedere a determinate posizioni in ambito pubblico.
La condizione femminile nell'epoca moderna è stata segnata pesantemente dall'idea che la donna in quanto donna possieda una "natura" specifica, legata alla corporeità e alla sua potenzialità riproduttiva, che ne determina il modo d'essere. La donna, diversamente dall'uomo, non è definita in base alle sue attitudini in quanto persona, ma a partire dalla sua identità biologica, che diviene sinonimo di disuguaglianza e di inferiorità.
Alla diversità tra i due sessi si fa corrispondere una netta contrapposizione di compiti e di ambiti di appartenenza: alla donna competono "per natura " i ruoli di moglie e di madre, il suo valore è in funzione della sua capacità di prendersi cura della famiglia e della casa, non le vengono riconosciute capacità e possibilità di progettare in modo autonomo la sua esistenza. (...)
Le pratiche politiche e di relazioni e i saperi delle donne negli ultimi vent'anni hanno anche condotto ad una rivalutazione del concetto di differenza : le diversità biologiche e psicologiche, per secoli congelate in stereotipi difficili da sradicare e utilizzate per discriminare e segregare, quando vengono messe in campo liberamente da entrambi i sessi possono diventare preziose occasioni di ricchezza e di sviluppo equilibrato”.
considerazioni generali sul problema
Quanto detto in precedenza dovrebbe ormai far parte di un sapere acquisito dal corpo sociale, al punto che riportando queste righe, si ha addirittura la sensazione di non dire niente di nuovo e di affermare genericamente un valore non riconosciuto, come quando si affermano i valori dell’ambiente o dei paesi sottosviluppati, con la sensazione che chi ci ascolta sappia già quello che stiamo dicendo ed abbia ricevuto le nostre stesse informazioni.
Allora la domanda da porsi (ovviamente non in questa sede) è “come mai questi ruoli sfidano e resistono al sapere che ne evidenzia il fallimento”. Poniamoci la domanda non perchè abbiamo l’ambizione di rispondere, ma perchè dobbiamo sapere che ogni azione che andiamo a intraprendere dovrebbe possibilmente fornire un sapere di tipo diverso, capace di modificare gli atteggiamenti senza rimanere sterile informazione che non sposta di un millimetro il nostro modo di vivere.
Partiamo dal presupposto, credo completamente condivisibile, che nell’attuale panorama pubblicitario (e mediatico in generale) la figura femminile è molto frequentemente relegata in uno o due ruoli. Tale ruoli, o “modelli” (miss, modella, valletta o”velina” in un caso, mamma, massaia, cuoca e “angelo del focolare” nell’altro) ne forniscono rappresentazioni sostanzialmente riduttiva, non veritiera, inadeguata e soprattutto, come detto nell’introduzione, basata su caratteri biologici e apparentemente ignara delle reali e molteplici caratteristiche dell’universo femminile.
Questo “modello femminile”, pur non essendo una novità, rispetto alle considerazioni introduttive negli ultimi anni si è accentuato in maniera iperbolica ed ha assunto livelli di diffusione, di reiterazione e di omologazione da rendere necessaria una nuova serie di riflessioni sulle origini, sulle conseguenze, sugli effetti e anche sul “successo” di tale modello.
Non dimentichiamoci che i modelli moderni sono davvero capaci di creare un campo gravitazionale di attrazione, che incide su aspettative, desideri, pensieri e valori di quello che una volta si chiamava “il pubblico”.
cultura, quando comanda il consenso
Va detto che tale modello si afferma in maniera contestuale ad una assenza di dibattito sociale sul ruolo della donna, almeno a livello di grandi media, ma in maniera ancora più significativa ad un abbassamento della soglia di critica dei telespettatori/consumatori/utenti.
Questa affermazione potrebbe risultare opinabile, in quanto si può obiettare che negli ultimi anni sono cresciuti il livello culturale, l’informazione, l’istruzione, e conseguentemente anche la capacità critica delle persone, che dovrebbero poter discernere con maggior facilità tra i modelli esistenti, ed esercitare su di essi libere valutazioni.
Per sostenere questa affermazione, e cioè che vi è una tendenza ad abbassare la soglia di critica, che è un probabile fulcro del problema, mi servo di una premessa da pubblicitario. (Lombardi M, Manuale di tecniche pubblicitarie, Franco Angeli 1998). Nel percorrere gli effetti della pubblicità, teniamo sullo sfondo due strutture: un’industria culturale primaria (scuola, editoria, media, cinema, teatro, arti) la quale riveste una funzione ideologica; un’industria culturale secondaria (pubblicità) che ha invece una funzione retorica.
Questo non per scagionare i pubblicitari (i quali non sono certo esenti da responsabilità nell’affermazione e nella divulgazione di modelli comportamentali e nel suggerire i cosiddetti “orientamenti valoriali”), ma soltanto per sottolineare che i modelli culturali vengono prodotti “prima” che i pubblicitari li amplifichino rendendoli simili a mitologie moderne.
Come si è abbassata la soglia critica? Lo chiarisco subito, perchè non penso certo a ipnosi di massa o a messaggi subliminali. La faccenda è assai più banale e meno fantascientifica. Si tratta del fatto che negli ultimi anni, l'industria culturale primaria è caduta nella trappola del consenso, ricercando sempre un riscontro numerico (economico, di ascolti, di diffusione, di copertura o di penetrazione) alle proprie produzioni. Non cercando idee ma cercando successi. E possibilmente successi a portata di mano e che costassero il meno possibile. Quindi niente idee e niente rischi, perchè “non si sa come la prenderà la gente”. In poche parole è successo quello che afferma benissimo il sociologo francese Jean Baudrillard, quando dice che non è più necessario “produrre” opinioni, ma è sufficiente “riprodurre” l’opinione pubblica.
In quest’ottica, produzioni che scandalizzano gli intellettuali più ortodossi come i reality, le soap, oppure i quiz, trovano per intero la loro ragione di essere. E nella logica di “chi si somiglia si piglia”, siamo in un vortice in cui il cane si morde la coda. E non se ne esce, almeno per ora. Siamo costretti a vedere modelli che si ispirano a chi li adotta, in una continua autocelebrazione circolare tra emittente e destinatario del messaggio. D’altra parte la questione è già dibattuta da tempo ed evidenziata in particolare dal rapporto tra indici di gradimento e dati d’ascolto (Casetti - Di Chio, Analisi della televisione, Bompiani 1998)
dagli archetipi agli stereotipi
Ecco quindi che i media ripropongono e divulgano modelli (comportamentali, relazionali) che si ispirano a ciò che è già consolidato. Non più archetipi, come nella cultura classica, ma stereotipi. Archetipi e stereotipi possono essere visti come opposti: l’archetipo infatti è un modello che viene “dall’alto” (dalla religione, dal mito, dalla tradizione) e che ispira e si infonde nell’essere umano; stereotipo è invece un modello talmente diffuso nell’umano da essere “elevato” a emblema comune. Hanno origini opposte, ma entrambi sono punti di riferimento per la società, con un analogo potere. Con la differenza che l’archetipo è qualcosa di vivente, che si modifica e dialoga con l’interiorità delle persone mente lo stereotipo qualcosa di inanimato: se non proprio un cadavere, diciamo una statua al museo delle cere.
Ora torniamo alla figura femminile, intrappolata e sedimentata più di ogni altra nel modello mediatico. Apparentemente potrebbe sembrare che l’esperienza della vita quotidiana, condita con un po’ di informazione e un briciolo di sensibilità dovrebbe far cadere quest’impalcatura, ormai smantellata in maniera condivisa sul piano della conoscenza.
Eppure questo accade raramente e sembra invece che gli stereotipi , o modelli culturali”mediatici” abbiano una capacità altissima di incidere sulle scelte delle persone, e non soltanto sui target meno colti e meno informati. Per esempio, l’incremento vertiginoso della spesa pro-capite femminile (ma anche maschile) per la cura della persona e il benessere, è già un’indicatore di questa tendenza. Diete, prodotti ipocalorici, fitness e attività fisiche, cure estetiche, cosmesi, chirurgia plastica sono diventati capitoli di spesa sempre più rilevanti nel bilancio familiare, trasversalmente a strati sociali con differente potere d’acquisto.
Ma al di là di queste banali esemplificazioni, c’è un’ampia letteratura sui mass media e sul loro interferire e determinare in parte i processi di costruzione dell’identità, sempre più intesa come “il prodotto delle relazioni che ciascuna persona stabilisce con l’altro da sè”(Casetti - Di Chio, Analisi della televisione) e molto raramente come ricerca dei propri reali talenti e della propria specifica identità.
pubblicità, dove la faccenda diventa eclatante
Assunto che lo stereotipo ha origini molteplici nella società, scegliamo la pubblicità come luogo dove questo aspetto diviene più eclatante e più evidente sia per il forte impatto semantico, sia per la reiterazione dei messaggi, che ci costringono alla loro acquisizione anche se non ne siamo pienamente intenzionati. E per acquisizione qui parliamo proprio di assunzione di modelli stereotipati. Nel senso che dopo aver visto uno spot che presenta una certa modella che si muove e si abbiglia in un certo modo, una giovane telespettatrice potrà non comprare il prodotto proposto, potrà forse addirittura dimenticare qual’era questo prodotto, ma avrà ricevuto informazioni/indicazioni su come ci si muove e su come ci si abbiglia in un certo ambiente così interessante, bello e gratificante, dove gli sguardi complici e i sorrisi allusivi si sprecano.
Quindi lo stereotipo lavora anche inconsciamente; anzi, si potrebbe quasi dire che mentre siamo impegnati a valutare il prodotto il modello entra in noi. Ecco perchè la ricerca che si sta per intraprendere deve a mio parere lavorare più nella direzione dell’inconscio e di quanto più o meno inconsapevolmente venga metabolizzato lo stereotipo, piuttosto che spingere ad un’azione razionale di identificazione o di denuncia su qualcosa che non va o che ci sembra sbagliato nella pubblicità.
la promessa
In pubblicità c’è sempre una promessa. I pubblicitari la chiamano “benefit” ed è il beneficio derivante dall’utilizzo del prodotto proposto. Tuttavia, negli ultimi anni la comunicazione di questo beneficio si è sempre più trasformata, e la pubblicità ha assunto un ruolo di suggeritore e influenzatore che agisce su molti livelli e non soltanto sulla dimostrazione delle prestazioni del prodotto proposto. E’ evidente che quando la proposta di beni è ampiamente sovrabbondante rispetto ai bisogni della gente, per spingere il pubblico a comprare bisogna inventare delle promesse che coinvolgono anche la sfera delle sensazioni, delle emozioni e talvolta perfino dei sentimenti.
Per chiarire meglio questo enunciato si potrebbe fare l’esempio di un detersivo, la cui promessa “reale” è quella di lavare. Ma se si analizza il messaggio pubblicitario di qualche grande marca di detersivi, si nota che questo enunciato compare come inciso e la promessa va ben oltre, con riferimenti al senso di protezione della famiglia, alla difesa della sicurezza della casa come luogo che ospita gli affetti, all’amore per i propri familiari ecc.
In sintesi, la pubblicità non mette in primo piano il prodotto, ma mostra uno stile di vita o un profilo esistenziale desideràbile, e poi rappresenta il prodotto come appartenente a quello stile di vita.
Affermazioni come “ogni acquisto è uno status symbol” e “siamo quello che consumiamo” si inquadrano proprio in questo scenario propositivo.
Quindi, associata ad ogni messaggio pubblicitario c’è sempre una promessa che determina la volonta d’acquisto. Desideri di prestigio, salute e lunga vita, comodità, sicurezza, buon nutrimento, guadagno, risparmio, protezione della famiglia, approvazione dall’altro sesso, risparmio di tempo, risparmio di fatica, divertimento (Wales, Gentry e Wales).
Oppure, molle per spingerci a comprare: avidità, amore e sesso, egotismo, salute, paura, eroismo, sensualità, curiosità, felicità familiare, piacere (Burton e Creer).
Curiosità, nella visione di Burton e Creer “amore e sesso” fanno una voce unica, non si sa se per la morale bacchettona dell'America fine anni 60 in cui si elaboravano queste teorie, o per una profetica confusione e cortocircuitazione che si sarebbe drammaticamente affermata negli anni.
la proposizione dello stereotipo
Questa visione appena proposta è nota ai pubblicitari da diversi decenni e, quantunque ancora funzionante, si può dire che (come tutto in questi anni) si sia un po’ mixata e globalizzata, proponendo una nuova categoria di “super-stereotipi”, modelli ideali di persona che incarna un po’ tutto: abbiente, sana, bella, soddisfatta e a-problematica (di solito le persone problematiche nelle pubblicità sono comiche o buffe).
Il tutto non può trascurare la sua efficienza sessuale, che diviene frequentemente una promessa. (a titolo di esempio ricordo i due ragazzi che riprendono a fare l’amore in ascensore dopo che la ragazza ha assunto un’Aspirina, nello spot di tre o quattro anni fa, o delle vicine di casa che suonano alla porta in minigonna o accappatoio a cercare formaggi, sgrassatori o anticalcare... Per arrivare alle incongruenze assolute come quella nella quale un’avvenente benzinaia si inzuppa con la pompa dell’acqua per promuovere l’autoricarica di una compagnia telefonica).
Ovviamente, come già detto in precedenza, non tutte le colpe possono essere addossate alla pubblicità, soprattutto pensando che questo modello efficientistico, sportivo, di successo e sessualmente attivo viene visto come la prova del nostro benessere e della qualità della nostra vita anche dal nostro psicologo o dal nostro medico curante.
Tuttavia è nella pubblicità che si consolidano gli stereotipi, modelli tendenziali ai quali “bisogna” aderire il più possibile. E tra i modelli, si può affermare che quello femminile è quello di maggior successo e diffusione. Lo è a tal punto che anche l’immagine dell’uomo mediatico si è ultimamente molto “femminilizzata”, con impianti fotografici che evidenziano curve sinuose e corpi depilati e lisci, molto simili a quelli femminili.
i riflessi dello stereotipo
Oltre agli effetti genericamente indotti (e previsti) dalla pubblicità, (che sono in genere quelli di evidenziare o di far sorgere dei bisogni e di creare la convinzione che il soddisfacimento del bisogno passi attraverso l’acquisto del bene), l’utilizzo dello stereotipo proietta anche una serie di indicazioni che si riflettono sulla vita delle persone, in particolar modo su quei target groups dotati di minore senso critico (giovane età, mancanza di cultura, scarsa integrazione) e privati di altri modelli di riferimento non derivanti dai media.
Questo comunque non rende immuni le persone più colte o più integrate nella società, che talvolta assumono gli stereotipi come parametri di riferimento ai quale sovrapporre gli altri giudicandoli più o meno “buoni” sulla base della loro aderenza allo stereotipo.
La presenza incombente di questi modelli ha riflessi sul piano materiale (spesa per raggiungere lo stereotipo, tempo dedicato alla cura del corpo), ma anche sul piano psicologico e sulle relazioni: questo accade sia per l’universo femminile che per quello maschile, dove lo stereotipo agisce formulando l’imperativo interno “come devo essere” per le donne e “come vorrei che fosse la mia lei” per gli uomini. Ad una prima analisi sintetica emergono già con evidenza tutta una serie di effetti:
“universo femminile”
nella scala dei valori
nell’autostima
nella proposizione di sè e nei comportamenti
nelle scelte economiche
nelle modalità di relazione
nelle scelte alimentari fondamentali
“universo maschile”
nella scala dei valori
nelle aspettative
nei criteri con cui valutare le relazioni
nelle modalità di relazione
Queste voci sono solo un’ipotesi preliminare. Possono essere ampliate, e per ognuna possono essere fatte diverse considerazioni, anche se bastano da sole a suggerire tutta una serie di contesti, di situazioni e di scelte che non è difficile vedere, specialmente nei più giovani. Tra i più eclatanti si potrebbero citare le migliaia di candidate alle selezioni tv, la richiesta molto diffusa del “seno” come regalo per il diciottesimo compleanno o per la laurea, per quanto riguarda le ragazze, senza voler includere nella prospettiva anche i disordini psico-alimentari. Quanto all’universo maschile sarebbe sufficiente citare le difficoltà di relazione, senza voler trovare un collegamento diretto con la crescita di violenza o il bisogno di supremazia, che comunque hanno anch’essi qualche aggancio con alcune rappresentazioni nei mass media.
Il potere dei media
Torno a dire in conclusione che questa ricerca sarebbe molto più utile, e potrebbe partire già con maggiore profondità se avessimo a disposizione una migliore conoscenza a livello sociale degli effetti dei media, ed in particolar modo del crescente ruolo che giocano nella costruzione dell’identità. Si effettuano studi sistematici sull’azione dei media ormai dagli anni trenta, passando da concezioni di potere “forte”, ad altre che lo relativizzano, (M. Wolf, Gli effetti sociali dei media, Bompiani 1992) tuttavia, dopo quasi un secolo, non siamo ancora in presenza di un quadro complessivo e organico sul potere dei media e sulle loro molteplici interazioni sulla sfera umana.
In primo luogo dipende dalla continua evoluzione dei media, e della loro capacità di modularsi sulla base della redemption che riescono a raccogliere. La materia da studiare, quindi, si muove e cambia contuinuamente. Inoltre, per un lungo periodo questo è dipeso dal fatto che la gran parte delle ricerche sui media avevano i media stessi come committenti, interessati ovviamente a scoprire le proprie potenzialità, e quindi solo una faccia della medaglia. Ma dalla fine degli gli anni 60 sono cresciute moltissimo le letture critiche, che hanno evidenziato i molteplici livelli di interazione dei media con la nostra esistenza (culturali, mentali, ideologiche, emotive, ma anche sensoriali, metaboliche e neurofisiologiche ).
Sarebbe tempo che quanto c’é di sedimentato in questa direzione potesse essere conosciuto da tutti, e che le istruzioni per l’uso dei media, almeno quelle fondamentali, non si limitassero a un bollino rosso o verde al lato del teleschermo per preservare i minori da visioni inadeguate.
Mi è abbastanza oscura la ragione della proposizione di questo bellissimo saggio, che ho letto con sincero interesse. Che abbia a che fare con scenari visivi è peraltro innegabile.
RispondiEliminaLa tentazione a cui voglio, forse incautamente, cedere è di rendere pan per focaccia. Nel 2010-2011 ho organizzato con un'amica, ex docente di lettere, quattro conferenze dal titolo "Non credevo che sarebbe andata a finire così", derivato da un'esclamazione fatta nel corso di una discussione sulla figura della donna nel mondo mediatico e non solo. Ci siamo ovviamente appoggiate ad un'Associazione ed abbiamo avuto il sostegno delle istituzioni, anche perchè una delle iniziative era un questionario sull'argomento, sottoposto a circa 500 donne. Alle conferenze abbiamo invitato figure significative per la loro conoscenza critica del problema (cito Giulietta Ruggeri e Silvia Neonato, tanto per farmi capire... ed abbiamo utilizzato una ricerca statistica in argomento di Paolo Arvati). Io mi sono divertita a scrivere qualche intervento e te ne posto uno, qui in coda. So che è ben lontano dalle competenze scientifiche che supportano dottamente il tuo saggio (anzi mi scuso in anticipo per le inevitabili ingenuità che trapelano anche al mio stesso sguardo, so bene che mi sono avventurata a discutere in un campo in cui non ho una preparazione adeguata) ma penso che magari possa costituire pur sempre una "testimonianza".
P. s.: diviso in tre commenti.
Come siamo
La ragione della nascita dei quattro incontri, del questionario e quindi di questa pubblicazione è legata sostanzialmente alla delusione che alcune donne, in generale nella loro vita attuale, ma forse più acutamente nella tarda primavera del 2010, si sono trovate a confidarsi. Deluse dal trovarsi a vivere in una società ove perdura una “condizione della donna” (come si definiva l’argomento negli anni ’70) alla quale si sentono estranee. Ma, sempre con riferimento agli anni settanta, il personale è politico, e quindi traiamo alcuni elementi da esperienze anche personali.
Negli anni del femminismo, quelli delle battaglie e delle rivendicazioni, della rabbia, delle streghe di fronte alle quali si sarebbe dovuto tremare (dal ridere, temo), beh, alcune di noi, forse perché giovani ed ingenue, “femministe” non lo sono state. Perché? Perché troppo orgogliose e presuntuose, non potevano sentirsi veramente coinvolte, non pensavano di avere qualcosa da rivendicare e non capivano chi si sentiva discriminata in quanto donna e non sapevano di aver qualcosa da chiedere in tema di parità nella società. E così nel frattempo hanno fatto la loro strada, come se fossero state uomini, certe che però la società non avrebbe potuto fare altro che cambiare, in meglio, sicuramente.
Sappiamo ora che le richieste e la rabbia erano sacrosante, hanno dato dei risultati, che la società è cambiata, anche in meglio, nel senso che ci sono state sia la riforma del diritto di famiglia sia il riconoscimento legale, se non fattuale, di parità sia dentro che fuori lo studio ed il lavoro. Ma la società è cambiata, ovviamente, soprattutto in maniere inaspettate e che a volte non ci piacciono. Obiezione ovvia: siete vecchie e moraliste e quindi non ci capite più niente. No. Un nuovo e potentissimo moralismo ipocrita, che fa sì che possano essere stigmatizzati selettivamente i divorziati ma non i clienti di prostitute, incredibilmente serpeggia e lascia interdetti, impotenti laddove non si possono in nessun modo far valere ragioni.
RispondiEliminaInfatti, tornando al passato, altro discorso sarebbe da fare a proposito del “fate l’amore non fate la guerra”. La liberatoria nuova visione del sesso e dei rapporti di coppia - che fa sì che oggi spesso siano le madri a suggerire alle figlie di non sposarsi, e magari convivere, per vedere come va prima di fare passi importanti - sarebbe stata improponibile per la nostra generazione. Situazioni che viviamo tutti i giorni ci dimostrano come le ipocrisie ed il perbenismo del passato siano in buona parte dissolti e, per le donne come per gli uomini, sia possibile vivere serenamente la propria vita affettiva e sessuale.
Ma, come dicevamo, a fronte dei sogni e dei desideri, in parte perfino realizzati, che erano stati propri di quella che era stata chiamata “rivoluzione culturale”, si sono verificate anche reazioni simili alla dantesca pena del contrappasso: hai la libertà sessuale? Bene, la puoi usare per andare a dare spettacolo al “Grande Fratello” (anche se non sai da dove viene il titolo della trasmissione perché non hai mai letto Orwell). Hai la piena disponibilità del tuo corpo? Bene, lo puoi usare per cercare lavoro nel mondo dello spettacolo attraverso la prostituzione, anche se nel frattempo avevi preso pure una laurea.
Tra le riflessioni d’attualità le donne si sono (ahimè, come sempre) divise: chi sostanzialmente trova poco dignitose le “scelte libere” di donne che si fanno usare, chi trova comunque moralista questa posizione e vuole ritrovare la libertà al di là degli schemi e dei modelli culturalmente egemoni oggi.
Dopo gli autorevoli interventi di queste conferenze non mi pareva di avere nulla da aggiungere: è già stato detto molto, e bene. Poi però ho ricordato come era rappresentata nei media la donna, quando ero giovane. Se si fa riferimento proprio al mondo dello spettacolo, possiamo rilevare come, nei filmati di vario genere realizzati fino agli anni cinquanta, la donna (ovviamente bella) sia sempre debole e bisognosa del soccorso di qualche “eroe”, non usi mai le mani (o le pistole) con perizia per cavarsi dai guai da sola, ed anche per quanto riguarda la sfera intellettuale quasi sempre lasci l’iniziativa all’uomo di turno, salvo, con astuzia e seduttive armi cosiddette “femminili”, ottenere vantaggi o risolvere problemi.
Dopo gli anni settanta - ottanta nascono nuove figure femminili che hanno notevoli capacità ed autonomie, sia intellettuali che fisiche, in parte ricalcando schemi maschili, ma creando anche nuovi modelli, di indipendenza e forza al femminile: potremmo dire da Indiana Jones a Lara Croft, oppure dalla mitizzazione delle nuove manager alla rivendicazione del ritorno a casa delle donne impegnate e stufe dello stress da potere (!).
La verità è che, come accade spesso, abbiamo opportunità e libertà che non sappiamo usare e la rivoluzione culturale - che c’è stata davvero - non ha portato le stesse cose per tutte. Non ci sembra infatti che abbia dato i risultati attesi: a volte la realtà ha superato la fantasia, compreso il fatto che ancora oggi molte donne, nelle loro famiglie, sono ben lontane dal godere l’indipendenza (e la capacità) di condurre la gestione economica, ma sono sicuramente le uniche a godere del privilegio di preparare da mangiare, ad orari prestabiliti, per tutti gli altri. Ma ci diranno che è una loro libera scelta.
RispondiEliminaDi libera scelta sostengono trattarsi tutte quelle donne che hanno come unico modello di vita il poter entrare nel mondo della televisione e dello spettacolo, confondendo questo apparente e spesso quanto mai effimero “successo” con l’appartenere davvero ad un ambiente visto come attraente e ricco di opportunità e di denaro, ambiente invece estremamente selettivo, che brucia personaggi per fare spettacolo, come richiede un settore commerciale che usa e sfrutta proprio l’ingenuità dei più (sia come attori sia come spettatori) al fine di arricchire i gestori del sistema mediatico.
In entrambi questi casi la rivendicazione di libere scelte (donna di casa e donna di spettacolo) lascia molto perplessi; alla fine si tratta purtroppo sempre di adesione ad un modello altrui per ottenere dei vantaggi, sia di tipo morale sia di tipo materiale, proponendosi alla fin fine pur sempre come un prodotto di utilità, o di consumo. Inoltre, quasi a dimostrazione di ciò, succede un curioso cortocircuito: se in internet si digita, nel motore di ricerca, la parola “casalinga” e si seleziona l’opzione “immagini”, la maggior parte delle figure che appaiono rappresenta donne seminude in pose di sexy sottomissione, ovvero le immagini ricorrenti delle ragazze che cercano un posto nel mondo mediatico. Una ragione ci sarà, no?
Conferenza del 19-02-2011, Sede dell’Associazione Donne Insieme, Genova Pegli.
Sembra il capitolo 2 post, nel senso che mi sembra che la pensiamo esattamente nello stesso modo, e credo sia difficile dissentire per chi applica le categorie kantiane della ragione. Certo che se poi alla gente viene stravolto il concetto di "libertà" ( è successo con molte altre cose tipo "giustizia" o "verità") dai media, che ne propongono solo delle "rappresentazioni" che ne sono praticamente il contrario, allora succede quel che succede. All'interno dei condizionamenti subdoli, come quelli cosiddetti democratici, molta gente crede di essere libera.
RispondiEliminaCiti Marcuse? Ma come mai, se lo sappiamo da cinquant'anni, lo lasciamo succedere ancora? Perchè la generazione che sa queste cose, e non da ora, ha lasciato che il danno arrivasse a questo punto? Lo scenario, visivo e non, rappresenta fin troppo bene lo scollamento tra quello che è e quello che si vuol far credere (il che potrebbe anche essere un fatto artistico) ma non si tratta di una poetica astrazione, della potenza dell'ironia e del cambiamento di senso, ma solo un becero inganno. Non smette di stupirmi il fatto che molti sembrino credere sinceramente che l'inganno sia realtà.
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