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sabato 23 febbraio 2013

Sul cosiddetto minimalismo



Credo che quasi tutti i grafici e i visual designer contemporanei si professino "minimalisti". Con il termine minimalismo si intende definire la tendenza stilistica ad eliminare gli orpelli decorativi e gli elementi visivi non indispensabili; a mettere in campo equilibrio, rigore e semplicità per rendere pregnante ciò che veramente conta e cancellare l'inutile. Una specie di reductio ad minimum, appunto, che sembra obbedire alla prima delle Lezioni americane di Calvino, quella sulla leggerezza.
Devo ammettere che anch'io sono rimasto coinvolto in questa tendenza. Faccio parte di una generazione di progettisti cresciuta a "pane e razionalismo"; i nostri assiomi formativi sono stati tecnico-scientifici: ergonomia, prossemica, teoria della gestalt, geometria e ricerca della semplicità formale e produttiva. Quindi è logico pensare che i nostri orientamenti valoriali abbiano prodotto il minimalismo. Una specie di punto d'arrivo, un ritorno all'essenza, un bisogno di togliere il rumore di fondo. Ma ormai è un linguaggio diffuso, una specie di stereotipo comunicativo; chi non pratica il minimalismo è out.
Nella convinzione che ogni scelta stilistica abbia un legame profondo con la società che lo esprime, mi chiedo se queste bellissime vetrine che sembrano sale operatorie, queste brochures tutte bianche con i testi in grigio, questi loghi che non sono altro che nomi scritti in Helvetica o derivati, questi packaging sempre più light (più il prodotto sale nella gamma, più la grafica del pack e minimal) non tradiscano il nostro scenario interiore, oggi desertificato dalla negatività delle contingenze.
Non è una critica, il minimalismo mi piace e lo apprezzo ancor di più se penso che potrebbe essere (anzi, è) l'erede diretto del razionalismo post bellico, e che sicuramente ha avuto i suoi profeti in grandi grafici come Fronzoni, Spera, Steiner,  Noorda, ma bisogna anche segnalare che questo percorso verso l'essenziale ha avuto alcune importanti deroghe. Deroghe che, guarda caso, coincidono con due periodi carichi di potenziale eversivo, di fermenti culturali e di cambiamenti di rotta.
Il primo riguarda gli anni della rivoluzione studentesca alla metà degli anni '60, il movimento che portò ad ampia diffusione i temi della beat generation. A caratterizzare quell'epoca dal punto di vista della grafica restano - per esempio - i lavori di Milton Glaser e di Tadanori Yokoo, che metabolizzando la pop art, il rock e i temi libertari della rivoluzione, trasmettono una caotica e gioiosa energia vitale.

(Le immagini sono tratte da theredlist.fr)

L'altra riguarda la fine degli anni '70 ed è una ancora imprecisata cloud di spostamenti concettuali sull'architettura, sul design e sulla grafica che viene generalme nta raggruppata sotto il nome di postmodern. A testimonianza di quell'epoca posso citare le parole che ascoltai direttamente dalla voce di Alessandro Mendini (fantastico interprete del postmodern, purtroppo noto al grande pubblico solo per la poltrona Proust), in cui apostrofava la nostra generazione di progettisti razionalisti vanamente impegnati a combattere il disordine.

"Il disordine - diceva - va metabolizzato e trasformato in ingrediente progettuale".
Dobbiamo registrare che queste due tendenze in un certo senso mettono in discussione l'idea di modernità razionalista, si oppongono ad un'idea di uomo solo razionale. Mendini diceva che siamo un mix di naturale, di mistico e di tecnologico.
In entrambe queste tendenze si individua un'ironia, un senso del gioco e del divertimento, una ricerca di energia e di superamento del banale che il minimalismo non può concedersi per non tradire se stesso.

1 commento:

  1. per la prima volta su questo blog sono obbligato dal tema di questo post a ricordare Milton Glaser... http://www.miltonglaser.com/the-work/c:posters/

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